giovedì 15 dicembre 2011

LA TEORIA DEI COLORI



 Andy Warhol, Gothe, 1982 


Johann Heinrich Wilhelm Tischbein, Goethe, 1786







Un argomento di cui non si è mai finito di interessarsi, di parlare, di discutere, di studiare, di sperimentare è quello dei colori. Fa parte della vita, dell’ esperienza di tutti, a cominciare dall’ uomo della preistoria, che usava i colori nelle sue pitture, non si sa come, sulle pareti rocciose, nel buio profondo delle caverne e comunicava, forse propiziava, pregava, adorava. I colori Interessano molte professioni e usi, arti e mestieri, costumi e mode, la comunicazione e l’ estetica. Chiamano in causa tante scienze, matematica, fisica, elettronica, chimica, psicologia, ecc. Si collocano tra oggettività e soggettività. Coinvolgono appassionatamente nello studio anche studiosi che non dovrebbero essere propriamente tra gli addetti ai lavori. Che se ne interessi Isaac Newton ( 1642 - 1727 ) è naturale, ma un po’ meno che se ne occupi Johann Wolfgang Goethe, uno dei cinque sommi poeti dell’ occidente insieme a Omero, Virgilio, Dante, Shakespeare, definito da George Eliot ( 1819 - 1880 ), secondo la concezione rinascimentale,  l’ ultimo uomo universale a camminare sulla terra.

Goethe ( 1749 - 1832 ), uomo di transizione tra illuminismo e romanticismo o forse meglio filosofo e scrittore chiave della transizione dall’ illuminismo al romanticismo, non conosceva confini tra i saperi. Era un immenso appassionato di lingue, di arti e di scienze: mineralogia, anatomia, osteologia, geologia,  botanica, ottica, ecc. Un minerale, la goethite, porta il suo nome, ugualmente un cratere su Mercurio. Gli fu bocciata la  tesi che avrebbe dovuto conferirgli il titolo di dottore in legge ( doctor juris  ) come il padre, ma le sue idee di solo licenziato in diritto ( licentiatus juris ) sulle leggi che devono nascere dalla cultura di un popolo e dalla sua terra  fecero strada come fecero strada arrivando  fino a Charles  Robert  Darwin ( 1809 - 1882 ) quelle sull’ evoluzione. Goethe asserisce di aver dato più importanza nella sua vita alle scienze e specialmente alla teoria sui colori che alle opere letterarie. Testimoniano questo interesse le opere La teoria sui suoni  ( 1810 ), il trattato sull’ ottica, La metamorfosi delle piante ( 1790 ), lo scritto sulla matematica, ecc. Ciò non gli impedisce di lavorare per sessant’ anni al Faust ( la prima parte fu pubblicata nel 1808; l’ opera completa soltanto postuma ) in cui rispecchia, per tanti tratti, se stesso.

Non gli interessa l’ esercizio della professione di avvocato che esercita per quattro anni né quella di praticante nella corte imperiale di giustizia o quella di ministro o di consigliere ministeriale per gli affari militari, per la viabilità, per le miniere, la pubblica amministrazione, la sovraintendenza ai musei o il titolo nobiliare conferitogli dall’ imperatore Giuseppe II. Probabilmente si sente soffocare e nel 1786, come per fuggire da tutto questo,  intraprende i due anni di viaggi in Italia, seguendo le orme del padre. Questa vita era troppo complicata per un uomo che, conosciuto e ammirato da nobildonne, sposerà una semplice fioraia.  Anche la sua città natale, Francoforte sul Meno, era un « nidus, buono a covarci uccellini ma in senso figurato, spelunca, un tristo paesucolo. Dio ci scampi da tanta miseria. Amen ». Non ne può più, ha bisogno di respirare aria libera in un paese segnato dalla bellezza e dalla grandezza del passato e così raggiunge l’ Italia.

Il tipico cosmopolitismo del Settecento, che non era proprio della Germania di allora divisa in oltre duemila tra dazi e dogane e in trecento staterelli assoluti, era anche cosmopolitismo delle conoscenze e dei viaggi. Goethe, scrittore tra l’ altro di viaggi, era pure viaggiatore della mente tra arti e scienza. Portava nella scienza la passione dell’ illuminismo e la mistica del romanticismo. All’ epoca non era inusuale che un poeta e scrittore si dedicasse con ardore alle scienze e un grande matematico e scienziato coltivasse la poesia come, per fare un esempio, il nostro Lorenzo Mascheroni ( 1750 - 1800 ), a cui Vincenzo Monti ( 1754 - 1828 ) dedica l’ incompiuto poema In morte di Lorenzo Mascheroni.

A Goethe non poteva bastare il linguaggio della parola, dove era sovrano, ma occorreva anche quello del pensiero, della filosofia, della teologia, quello della musica e della matematica, dell’ immagine delle arti, dei suoni, dei colori e allora ecco la  grande Teoria dei colori ( 1810 ), a cui dedica circa vent’anni di studi ( 1790 - 1810 ), di osservazioni ed esperimenti continui. In fondo Goethe era anche capace disegnatore e pittore.

Il vero retroterra della Teoria dei colori era questa passione illuminista e la mistica protoromantica dello Sturm und Drang ( Tempesta e Assalto o Impeto e Azione ), anche se la motivazione contingente era la sua posizione ostile alla teoria sui colori di  Isaac Newton.

L’ opera partecipa sia dell’ età della Ragione, dei Lumi, dello spirito, delle finalità, delle metodologie illuministe sia della temperie protoromantica. Impressionante la sistematicità, le suddivisioni, le descrizioni particolareggiate, che testimoniano la volontà di padroneggiare il fenomeno cromatico tanto complesso ed essere esaustiva sia sul piano teoretico che pratico.  La temperie protoromantica si sente bene fin dalla prefazione dove afferma: “ I colori sono azioni della luce, azioni e passioni ” ( La teoria dei colori, il Saggiatore Tascabili, Milano 2009, p. 5 ). E ancora di più si avverte nella sezione sesta intitolata “ Azione sensibile e morale del colore ”, fondamentale e attualissima: “ 758. … esso esercita un’ azione, in particolare sul senso della vista, a cui esso in maniera evidente appartiene e, per suo tramite, sull’ anima nelle sue più generali manifestazioni elementari…” ( Op. cit., Sezione sesta, p.189 ). La trattazione, una vera enciclopedia sui colori, si struttura in sei sezioni, ognuna di numerosi capitoli. I grandi filosofi e artisti del Novecento dimostrano di conoscerla bene: Wittgestein, Kandinskij, Klee, Albers, Andy Warhol, che nel 1982 dipinge Goethe, riprendendolo dal famoso ritratto Goethe in the Roman Campagna ( 1786 ) di Johann Heinrich Wilhelm Tischbein, pittore neoclassico ( 1751 - 1829 ) e dando un saggio dell’ ispirazione e della rinnovata creatività che si può trarre dalle teorie del  genio tedesco. Dopo un non lungo periodo di oscuramento, l’ opera non ha mai cessato di essere attiva e di sollecitare la pratica dei pittori.

Venendo al punto essenziale, c’ è da domandarsi perché tanta ostilità alla teoria dei colori di Newton, vista come un’ antica rocca, una bastiglia da radere al suolo, dimostrandone l’ inconsistenza? La teoria di Newton definita ironicamente “ ottava meraviglia del mondo “, in realtà  è “… un’ antichità che minaccia il crollo e, senza cerimonie, cominciamo a smantellarla a partire dal comignolo e dal tetto, cosicché il sole finalmente entri a far luce in quel nido di topi e di civette, rivelando alla stupito viandante l’ incoerente e labirintica costruzione e, quindi, ancora quanto vi è d’ imposto dalle necessità, quanto vi è di casuale, d’ intenzionalmente artificiale, di malamente raccomodato “ ( Op. cit., p. 9 ). E’ fondamentale per comprendere le ragioni dell’ opposizione la Prefazione all’ opera. Tra luce e colori vi è un rapporto strettissimo, l’ una e gli altri appartengono all’ intera natura ed è proprio questa che, tramite loro, si svela al senso della vista e agli altri sensi, cogliendo un infinitamente vivente. E’ la natura a parlare, a rivelare la propria vita, le proprie connessioni. Parla a se stessa e a noi in mille manifestazioni. Noi percepiamo questi universali movimenti e determinazioni. Nella Natura, con l’ iniziale maiuscola, si percepisce il  Goethe panteista spinoziano; si avverte la centralità dei sensi nell’ apprendere i fenomeni naturali e l’ influsso della filosofia di Immanuel Kant ( 1724 - 1804 ) dove i fenomeni rinviano al noumeno ( Op. cit., Sezione quinta, p. 183 ). E allora come può ridursi ad accettare il meccanicismo corpuscolare newtoniano, la pura fisica e matematica dei colori e  la luce, che, passando attraverso un prisma, è scomposta nei vari colori dello spettro dal rosso al violetto proiettati sul muro e l’ esperimento al contrario, vale a dire  l’ interposizione di un prisma tra l’ occhio e il muro che restituisce la luce bianca? Anzi è proprio quest’ ultimo a scatenare il suo rifiuto, a convincerlo che la teoria di Newton è totalmente sbagliata. La natura non è mai morta o muta. L’ intento dichiarato dell’ opera è di applicare queste universali designazioni e linguaggi della Natura alla teoria dei colori. Da questo pensiero sensista e da questa percezione protoromantica dell’ infinitamente vivente della natura nasce tutta l’ ostilità a Newton e soprattutto all’ arrogante scuola newtoniana, che, a suo modo di vedere, non comprendendo la natura, ha limitato finora la libera visione delle manifestazioni dei colori , ha negato la storia dei colori. “… era del tutto impossibile scrivere una storia della teoria dei colori o anche soltanto prepararla, fino a quando si reggeva la teoria di Newton ( Op. cit., p. 9 ). Da qui il suo fastidio e sdegno contro i newtoniani, che guardano con presunzione a quanti nell’ antichità e nel medioevo percorsero la giusta via lasciandoci osservazioni  e considerazioni che noi non “ potremmo meglio comporre, né sapremmo più esattamente  comprendere “ ( Op. cit., p. 10 ).

Da questo nasce la sua appassionata deplorazione dei metodi della matematica applicati alla teoria dei colori che le hanno recato parecchi danni:

725. “ La teoria dei colori ne ha particolarmente patito, e i suoi progressi sono stati notevolmente ritardati dall’ essere stata assimilata al resto dell’ ottica, che non può fare a meno della geometria “ ( Op. cit., Sezione quinta, p. 179 ).

 Ne viene individuato il vero colpevole, Newton:  

726.“ A ciò si deve aggiungere che un grande matematico si è fatta un’ idea completamente erronea dell’ origine fisica della luce, legittimando per lungo tempo coi suoi grandi meriti di geometra, dinanzi a un mondo sempre prigioniero dei pregiudizi, gli errori da lui commessi come scienziato della natura “.

727. “ L’ autore del presente lavoro ha cercato di tenere la teoria dei colori ben distinta dalla matematica… “ ( Op. cit., Sezione quinta, p. 179 ).

Ecco ciò che si augura l’ autore:

746. “ Augureremmo al sapere , alla scienza, all’ industria e all’ arte, di ricondurre, quando fosse possibile, il bel capitolo  della teoria dei colori dalla limitatezza e dall’ isolamento atomistici in cui è stato finora confinato, al flusso dinamico della vita e dell’ azione, di cui il nostro tempo gode “ ( Op. cit., Sezione quinta, p. 185 ).

Questa visione della natura, universale, viva  e palpitante, piena di ardore e sentimento è più propria di un filosofo che di uno scienziato, appartiene al protoromanticismo inglese e al romanticismo e non alla seconda metà del Seicento, quando Newton sperimenta e descrive la sua teoria ( 1672 ). L’ attacco a Newton, di cui ha ripetuto tutti gli esperimenti, è un vero e spiacevole infortunio; Goethe è vittima di se stesso, cioè della sua cultura protoromantica e della sua sensibilità romantica. Per la scienza resta altamente valida la teoria di Newton. Tuttavia non è da sottovalutare la grande interazione tra luce, materia e colori che il genio di Francoforte sul Meno indagò a fondo. Per la pratica pittorica e per molte professioni  la teoria di Goethe è una patrimonio carico di idee, di suggerimenti e di suggestioni. Uno degli apporti originali di Goethe è nell’ importanza data all’ occhio, che indurrà poi il filosofo Arthur Schopenhauer ( 1788 - 1861 )  a scrivere il trattato La vista e i colori ( 1816 ). Se la fisica ci dice che ad ogni lunghezza d’ onda è associabile un colore, la scienza dell’ occhio ci spiega che a determinati colori non è associabile una lunghezza d’ onda, pertanto molte osservazioni di Goethe si inquadrano in questa formazione di colori che sono somma dell’ apparato cervello + occhio, l’ inverso dei colori artificiali dell’ RGB della televisione. Goethe porta  nella sua trattazione tutto il peso della soggettività, dell’ individualità, com’ è naturale all’ estetica protoromantica e romantica. Personalizza quella che sembra aridità della scienza, ma che è soltanto il rigore metodologico per arrivare alla verità, vale a dire a sapere esattamente come stanno le cose. Cerca  nella sua personale visione di indagare sulla luce e i colori fisici, ma anche su quelli soggettivi e sui loro aspetti emozionali ed estetici,  che hanno riempito i suoi occhi e il suo animo sotto ogni forma, presentazione e produzione. Vero o leggenda che sia che in punto di morte le sue ultime parole siano state “ più luce ” ( Mehr licht ), resta il fatto che il suo spirito era certamente bramoso di conoscere a fondo l’ interazione luce, materia e colori e che la sua vita si era aperta e si chiudeva nell’ immane festa della luce e dei colori, della bellezza manifesta nella natura e in ogni specie di sapere. Per comprendere meglio  La teoria dei colori, l’ importanza e il metodo di lavoro di Goethe vale la pena riportare qui per intero la bella Conclusione dell’ opera:


“ CONCLUSIONE

In procinto di licenziare, in certo modo estemporaneamente, come semplice abbozzo, il lavoro che mi ha così a lungo occupato, e sfo­gliandone le pagine già pronte, mi tornano alla mente le parole di un autore scrupoloso, secondo le quali egli avrebbe desiderato veder stampate in una prima stesura le sue opere per poi rimet­tersi con freschezza all' opera, in quanto nella stampa i difetti ci vengono incontro più chiaramente che nella più nitida calligrafia.

In me questo desiderio doveva nascere tanto più vivo, in quanto non potei rivedere prima della stampa una copia del tutto in ordine, cadendo la successiva redazione di queste pagine in un' epoca che rendeva impossibile un sereno raccoglimento.

 Quante cose dunque, di cui molto si trova già nell' introduzione, avrei da dire ai miei lettori! Mi si vorrà comunque permettere, nella storia della teoria dei colori, di menzionare anche le mie fati­che e il destino che hanno subito.

Forse non è qui fuori posto almeno una considerazione, la risposta alla domanda: cosa può produrre e cagionare a favore della scienza chi non è nella condizione di dedicare a essa la sua vita intera? Cosa può fare, ospite in casa d' altri, a vantaggio del pro­prietario?


Se si considera l' arte nel senso più alto, si potrebbe desiderare che solo dei maestri vi si dedichino, che gli allievi vengano esa­minati nella maniera più severa, e che i dilettanti si accontentino di un reverente accostamento a essa. Infatti, l' opera d' arte deve scaturire dal genio, l'artista deve chiamare in vita contenuto e forma dalle profondità del proprio essere, deve comportarsi da dominatore nei confronti della materia e fare uso degli influssi esterni solo per la propria formazione.


Ma come già l' artista, per diverse ragioni, deve onorare il di­lettante, nelle scienze si dà tanto più il caso che egli possa ren­dere soddisfacenti e utili servigi. Le scienze poggiano, molto più che l' arte, sull' esperienza, e nel trattare con questa molti sono abili. Ciò che appartiene alla scienza riceve contributi da più parti, e non può fare a meno di più mani e di più teste. Il sapere si può trasmettere, i suoi tesori possono venire ereditati e quanto viene acquisito da qualcuno viene fatto proprio da altri. Non vi è dunque chi non possa offrire il suo contributo alle scienze. Di quante cose non siamo debitori al caso, alla pratica, all' atten­zione di un istante? Tutte le nature dotate di una sensibilità fe­lice, le donne, i bambini, sono capaci di comunicarci osservazioni vivaci e pertinenti.


Non si può pretendere da chi si propone di rendere qualche servigio alla scienza che egli dedichi a essa tutta la vita, che egli l' abbracci e la percorra per intero, richiesta considerevole anche per gli iniziati. Si esamini la storia delle scienze in generale, so­prattutto di quelle naturali, e si troverà che, in singoli ambiti, molti notevoli risultati furono ottenuti da individui singoli, spesso da semplici profani.


Dovunque  l' inclinazione,  il  caso  o  le  circostanze  conducano l' uomo, qualunque fenomeno attragga in particolare la sua atten­zione, ne ottenga la partecipazione, lo prenda, lo occupi, ciò av­verrà sempre a vantaggio della scienza, perché ogni nuovo nesso che venga alla luce, ogni nuovo modo di trattarlo — anche quanto è inadeguato, anche l' errore — sono utili o stimolanti e non vanne perduti per il futuro.


In questo senso l'autore può guardare con una certa tranquil­lità al suo lavoro. Da questa considerazione egli può cioè ricavare il coraggio necessario per quanto rimane da fare e quindi, non con­tento di sé ma pure intimamente sereno, raccomanda a un mondo e a una posterità compartecipi l' opera compiuta e ciò che ancora resta da compiere.


Multi pertransibunt et augebitur scientia  ( Op. cit., pp. 215 - 217 ) “ .

venerdì 2 dicembre 2011

Quasi il suo contrario


La poesia del Novecento fin verso il 1968 è sempre stata animata, accompagnata, vivacizzata da elaborazioni di programmi, di estetiche; da correnti, riviste, movimenti o gruppi ispiratori; dalla saggistica. Quella degli ultimi trent’anni del secolo è un po’ il suo contrario. Tutto questo scompare o quasi. I poeti procedono in ordine sparso, al di fuori di manifesti e di particolari riferimenti programmatici. Un fenomeno parallelo alla caduta delle ideologie. La democrazia culturale ha fatto crescere a dismisura il loro numero, finendo per lo più fuori dell’ attenzione della critica, che segna un distacco dalla poesia. Tutta la moltitudine poetica è fuori del suo controllo e della sua ribalta. Impossibile seguirne la pletora. La folla di poeti, che, secondo un paradosso, supera quella dei lettori, finisce in pubblicazioni solitarie, in almanacchi, premi e concorsi i più vari, in siti che appaiono e scompaiono come meteore, in edizioni di editori minori. Entrano sempre più in scena, al posto degli editori, gli stampatori che realizzano stampe a spese e ad autocompiacenza dell’ autore. Un certo numero di questi segue l’ imitazione di modelli, specie anglosassoni, americani. Ma l’ imitazione non sorge dalla vita com’ era per i modelli, ma dalla moda, segnando in partenza una mancanza di originalità e di qualità.

La critica si limita a un certo piccolo numero di poeti consolidati e ad un altro limitato insieme proposto in antologie di editori che hanno l’ intento di dare una panoramica della poesia attuale. I poeti delle antologie, più che oggetto dell’ attenzione della critica sono proposte di editori maggiori, che ne assumono in qualche modo la funzione e ne occupano lo spazio. Il critico è stritolato non solo nella sindrome della quantità, ma anche in quelle della indefinibilità, dell’ incapacità e dell’impossibilità a discernere, catalogare, definire, segnare appartenenze, stabilire confini, periodizzazioni, generi e stili, maniere formali, atmosfere, relazioni, significazioni non informative, senso e nonsense, connotazioni, dinamismi verbali, nuovi stilemi, diverse figure retoriche, grammatiche o loro assenza.

La poesia di questi anni struttura molte tipologie di testi, prende le vie del romanzo autobiografico, dell’ epistola, dell’ epigramma, del poemetto, del teatro, del racconto, del ritorno alla poesia e alla metrica del passato, della versificazione nuova, rapida, veloce, sperimentale fino a stupire per la sua semplicità o eccentricità, percorre i sentieri degli arricchimenti del testo poetico con paratesti, intertesti, apporti iconici. Per lo più rende faticoso al lettore percepire se si tratta di prosa o di poesia. L’ andamento è quello della discorsività, del tono dimesso, colloquiale, confidenziale. Qualcuno ha scritto che la poesia “si teatralizza” e “si prosa”, va alla deriva verso la prosa, arrivando anche a spettacolarizzarsi, senza per altro riuscire a offrire per lo più un vero spettacolo.

La materia è quella della quotidianità, senza scelte, senza selezioni, opzioni: è quella qualunque della vita. E’ tante volte minimal e allora di pari passo sono minimal il linguaggio, lo stile, la versificazione, i generi. E’ la discesa della poesia nel mare della quantità e nei registri verbali e stilistici bassi ( non manca, però, anche il registro aulico ), è il distacco dal monolinguismo di tradizione, dalle lingue base pascoliana e dannunziana ed è il passaggio al plurilinguismo, con le importazioni tramite le traduzioni, con lo sperimentalismo, lo scambio con le arti, con le scienze, con l’ informatica, con i dialetti.

Tutto questo segnala la fine della letteratura e di conseguenza della inclusiva specificità della poesia di cui si discute tanto nell’ ultimo trentennio del Novecento, sotto l’ incalzare di un universo sterminato di altri codici più idonei a interpretare, analizzare, elaborare, enucleare ed estrapolare dalla realtà, aprire mondi nuovi e sogni impossibili?

La polverizzazione delle arti figurative, la frantumazione delle poetiche, il continuo eruttare lava dalla soggettività più libera, sembrano davvero segnare la fine della storia dell’ arte e della letteratura. Nelle galassie della quantità, delle produzioni, dei linguaggi, contaminazioni, generi e stili, per il critico, ora è possibile vedere quasi soltanto una indistinta massa lattea. Sarà solo il telescopio della distanza e del distacco degli anni che consentirà di vedere le singole stelle, le singole luci. Nello stesso tempo si potrà concordare con l’ Italo Calvino delle Lezioni americane che la letteratura e la specificità della poesia hanno cose da dire che soltanto esse possono dire.

martedì 15 novembre 2011

NOVECENTO UN SECOLO DA RIPENSARE

A distanza di quasi dodici anni dal termine, si comprende sempre più che il Novecento poetico italiano è un secolo da ripensare.

All’ insegna delle “ parole in libertà ” e di tutti gli sperimentalismi, ha fatto uscire il poeta dalla sua torre d’ avorio e ha aperto la poesia a tutto e a tutti. E’ una cosa positiva e su larga scala. Non ci sono più ostacoli all’ accesso poetico. Da qui tuttavia nasce anche un equivoco. Chi vi si dedica non ha più a che fare ( o almeno questa è l’ impressione di moltissimi non proprio del "  mestiere " ) con problemi di lingua, con tutto l’ armamentario di scelte lessicali e linguistiche, di forme, di connotazioni, di generi, di componimenti poetici, di metrica, strofe, versi, numeri di sillabe, rime, accenti ritmici, pause, cesure, figure retoriche, ecc. Si pensa che la creatività non abbia più bisogno di regole. Finalmente la libertà, che è anche il grido del pittore, dello scultore dopo l’ impressionismo francese. Finalmente la libertà, è vero, ma si può aggiungere, per chi l’ arte ce l’ ha. La libertà è propria di chi è veramente artista ed è direttamente proporzionale al grado dell’ essere artista. Per gli altri la creduta libertà è solo risottomissione a nuove dogmatiche o mode.

Essere liberi da elementi formali non vuol dire essere automaticamente poeti e artisti. Personalmente penso che il sentimento della poesia e dell’ arte l’ abbiamo tutti o quasi tutti, ma non tutti possediamo le capacità, i mezzi espressivi per rendere all’ esterno in quelle forme e linguaggi che chiamiamo poesia e arte. Molti equivoci nascono da qui. Non si distingue il sentimento, il pensiero di poesia e arte dall’ estrinsecazione della poesia e dell’ arte. Qualcuno giustamente ha detto che spesso un pensiero di poesia lo scambiamo per poesia.

Perché dunque ripensare il Novecento poetico italiano? Perché le apparenze ingannano. Mentre le “ parole in libertà ” e gli sperimentalismi dànno l’ impressione  di un secolo facile in poesia,  comunicano la sensazione ingannevole che ci sia stato un allentamento, un abbandono un po’ di tutto, a favore del nuovo verbo, leggendo, invece, con attenzione e verifica, i poeti più significativi e importanti, molto di tutto questo non risulta vero. La creatività poetica non si è sbrigliata totalmente, nonostante il grande numero di estetiche, che affermano  tutto e il contrario di tutto, proposte nella prima metà del secolo, distinzioni tra poesia e non poesia, tra poesia e struttura, tra poesia e letteratura, a dispetto dell’ estetizzazione della politica, dell’ azione, della violenza, della guerra e della politicizzazione e ideologizzazione della scrittura e delle arti. Ha allentato a volte le briglie, ma non ogni freno. Il cavallo dell’ immaginazione, della fantasia creativa ha continuato a fare i conti con la lingua e i linguaggi, con una certa prosodia, perfino con la versificazione. Si è via via superato l’ estetica dell’ intuizione individuale e del frammento lirico per andare verso un ricupero degli aspetti stilistici, tecnico-formali. Non è per nulla un secolo facile.

Ancora di più e meglio si può capire che il Novecento poetico italiano non è un secolo facile se ci si addentra nella lettura e nello studio delle traduzioni che tutti i principali poeti italiani hanno affrontato, prima ancora che per commissione editoriale, per un bisogno di incontro, di rapporti di conoscenza, di arricchimenti di registri linguistico-poetici, di scambi e prestiti, di distruzioni e ricostruzioni sintattiche, per una necessità di entrare in dialogo, in confronto con poeti di altra lingua, di misurarsi con tutti i problemi che comporta la restituzione del poeta straniero nella propria lingua e per approfondire il senso e l’ arte del tradurre. E allora si vede che non tutti i vecchi strumenti del poeta sono andati in soffitta. Non di raro hanno tratto nuova linfa dagli studi linguistici e dalle nuove estetiche del secolo. E’ davvero impressionante rendersi conto di quanti e quali poeti, anche solamente a partire da Quasimodo fino al termine del secolo e spesso da quante lingue ( classiche e moderne ) ognuno ha tradotto e come si sono posti il problema di sempre della lingua e dei linguaggi, di come tradurre per non tradire, di restituire e non perdere la fisionomia originale del poeta tradotto, di ricrearlo e non snaturarlo. Tutto questo ha comportato immensa cura per la lingua, per le forme del linguaggio e anche per l’ aspetto, perfino per i versi, le rime e le assonanze, per la resa dell’ alessandrino francese, per le sonorità e toni , per gli accenti, la musicalità e le cesure e le invenzioni personali in cui renderli. Tutto il grande fervore fiorentino per le traduzioni degli anni Trenta - Quaranta, tutta l’ accesa passione di esimi studiosi, scrittori, poeti, dopo la grande guerra, per questo lavoro, che ha accompagnato le varie stagioni poetiche, fanno molto riflettere. Un secolo difficile, severo su questo versante. E’ inutile farne i nomi, perché il secolo ne è costellato in modo clamoroso. Oltre al grandissimo beneficio di sprovincializzazione, di europeizzazione, di internazionalizzazione ricavato dalla poesia italiana ad opera dei poeti nostrani traduttori, si è aperta in questo modo la grande e varia cultura poetica eminente delle altre nazioni all’ Italia, provocando un suo travaso speculare nelle lingue e culture di molti altri stati. Il rinnovamento, l’ europeizzazione, l’ internazionalizzazione non sono venuti dagli infiniti proclami e spesso pomposi vaniloqui della prima metà del secolo, ma dal duro lavoro degli addetti. Ha vinto l’ apertura culturale e linguistica dei nostri migliori poeti sull’ ingannevole libertà facile, traghettando le loro semantiche, lingua e poesia nel duemila a nostro stimolo e indicazione.

venerdì 14 ottobre 2011

ILLUMInations

C. Monet, Impressione, levar del sole ( 1872 )
La 54esima Biennale Internazionale d’ Arte, che sì svolgerà dal 4 giugno al 27 novembre 2011 ai Giardini e all’ Arsenale, dal titolo plurisignificativo e allusivo, ILLUMInations, è occasione per ripensare le linee di svolgimento del Novecento Artistico.
La linea di svolgimento di qualsiasi pittore o scultore, con un curriculum di formazione accademica, fin verso la metà dell’ Ottocento, muove sempre da studi, conoscenze, regole, osservazioni, confronti, apprendistato, esercizio, sperimentazione di tecniche, materie. Mira a produrre un’ arte leggibile, basata su valori riconoscibili, canonici; è linea di figure, di rappresentazione realistica, di riproduzione del reale, entro cui l’ artista tende a una propria identità, a stilemi personali. Ma a partire almeno dall’ Impressionismo ( Monet, Renoir, Sisley, Pissarro; il quadro Impressione, levar del sole di C. Monet è del 1872 ) molte cose cambiano, l’ artista si allontana da questa linea, ne va ben oltre e allarga enormemente il campo, i confini, le significazioni, la creatività dell’ arte e sempre più procede verso un’ espressione artistica non accademica, non canonica. Perfino i luoghi di elaborazione mutano, gli impressionisti si spostano dal chiuso all’ aperto, dallo studio all’ en plein air. Si prospetta così l’ immenso panorama variegato ( difficile da sintetizzare ) e perpetuamente instabile del ‘900, con un comune denominatore: la trasformazione o l’ abolizione della figura e della rappresentazione realistica, la sperimentazione a tutto campo. Si aprono indefinite vie al superamento della rappresentazione realistica e della figura.  Si passa dall’ arte di figure, di oggettività, all’ arte di soggettività di ogni tipo di espressione, di esperienze e di sperimentazione, che investono tutto il fare artistico, il porsi, il destinarsi come luoghi e collocazione delle opere create. Pensiamo alle opere di grandi dimensioni, alle installazioni che si avvalgono della multimedialità informatica e tecnologica ( Kentridge, Wall, Aitken ), alla Land Art ( Smithson, Heizer ), agli impacchettamenti di Christo, agli enormi sacchi di Burri. Molte opere, infatti, non potranno più andare in luoghi come case, date le dimensioni o la natura virtuale. L’ arte ormai ha rotto ogni sudditanza o vincolo a figure, regole, luoghi, operatività, contenuti, materie. Si sente libera e liberamente si esprime. La creatività è intesa sia come nuova espressione sia, tante volte, nei casi peggiori, da parte dei meno consapevoli e meno preparati o dotati, anche solo come rottura. E di evoluzione in evoluzione si passa dall’ arte come prodotto di un’ idea, all’ arte il cui prodotto o valore è solo l’ idea. L’ arte ridotta a pensiero. Tanto operare del Novecento non porta a un prodotto come opera d’ arte, ma semplicemente a un’ idea come esito artistico finale. Si pensi ad alcune espressioni di  arte-idea di Piero Manzoni. E da Manzoni in poi, tante altre trovate, esibizioni, manifestazioni dove di arte c’ è solo l’ idea, magari geniale, ma soltano idea.
Nel Novecento l’ arte non poteva continuare ad essere o a ripetere quella del passato, non solo per l’ esigenza di trovare qualche cosa di nuovo, ma soprattutto perché la civiltà era cambiata e perché le scienze, la psicoanalisi, la narrativa, la poesia avevano aperto nuove strade in tutti i campi della conoscenza e dell’ esplorazione della realtà o della psiche e queste nuove aperture e dimensioni l’ arte si apprestava a esprimere. Le descrizioni, la rappresentazione realistica non scompaiono, ma non è più questo il segno generale e là dove resiste, si carica di aspetti, significazioni, atmosfere e modalità diverse. Prima era la realtà che si imponeva all’ artista, ora è questi che si impone alla realtà. Un rovesciamento delle parti, un passaggio dall’ oggettività alla soggettività e il cammino non è ancora esaurito, continua a cercare nuove espressioni fino ad arrivare alla Body Art, all’ arte virtuale come esito finale di molte performance o della Computer Art.
La realtà dell’ Impressionismo o quella della Pop Art (  Rauschenberg, Warhol,
Lichtenstein, Oldenburg; in Italia E. Tadini ) non è più imitazione né lo è quella dei postimpressionisti ( Van Gogh, Gauguin, Cézanne ), dei simbolisti ( G. Moreau, P. Puvis de Chavannes,  A. Bresdin, O. Redon, P. Gauguin, A. Maillol, M. Denis, P. Sérusier ) o dei surrealisti ( Ernst, Mirò, Dalì, Magritte, Delvaux, Tanguy, Man Ray ). Con la Metafisica ( valga un nome solo, De Chirico ) si esprime l’ intento di andare oltre la “ fusis ”, la natura, la realtà, diffondendo senso di mistero, di enigma. Con l’ estraniamento dal contesto, la dislocazione, la manipolazione degli oggetti da parte dei dadaisti ( Tzara, Arp, Man Ray, Huelsenbeck, Duchamp ) si crea un’ altra realtà. O la si geometrizza, la si scompone con il cubismo ( erede di Cézanne ), prescindendo da prospettiva e profondità ( Picasso, Braque, Gris; in Italia U. Sambruni  ) o nell’ Espressionismo con i fauves ( Matisse, Derain e De Vlaminck e poi Kirchner, Nolde, Kandinskij, Marc, Beckmann, Munch )  le si toglie il primato dato invece al colore espressivo. La realtà in sé non richiama i futuristi ( Boccioni, Balla, Carrà, Severini, Depero, Russolo, Prampolini, A. Pevsner ) quanto piuttosto la rappresentazione della velocità, dell’ energia, del movimento, del tempo che scorre. Un qualcosa che ritorna nell’ Action Painting anni sessanta ( Pollock )  e che si fa segno, gesto negli artisti della New York School. Il realismo delle neoavanguardie del Novecento ( Picasso, Severini, De Chirico, Sironi, E. Hopper, ecc. ) e delle correnti d’ ispirazione realistica del secondo dopoguerra hanno una sensibilità che non è più quella  classica. Lo stesso vale per l’ Iperrealismo statunitense anni sessanta ( R. Artschwager, S. Posen, Ch. Close, R. Estes,  J. De Andrea, D. Hanson ). La parola che lo designa dice tutto. Anche il realismo dell’ arte sovietica ( Larionov, Malevic, Lissitkij, Tatlin ), retorica, celebrativa del regime, non può essere riportato alla rappresentazione classica.
Negli anni sessanta-settanta vanno ben oltre la rappresentazione della realtà l’ arte concettuale, atto di creazione intellettuale ( Sol LeWitt, Kossuth; E. Tadini ), l’ arte povera che dalla realtà trae solo i materiali ( Merz, Kounellis, Penone, Anselmo, Boetti, Paolini ), l’ arte informale dei segni, dei gesti, delle materie più disparate, della libertà da ogni vincolo ( Dubuffet, Burri, Fontana, Tapis; U. Sambruni ), l’ arte della geometrizzazione ( quasi una nuova metafisica, nella New York anni sessanta ) delle tele ( Stella, Kelly ) e delle sculture ( Judd, Andre, Morris, Serra ). La geometria, anima ricorrente di tanta parte del Novecento artistico, attraversa il mondo di Mondrian, di Licini, dell’arte optical, dell’ architettura del Bauhaus.
Dai fervidi anni sessanta nascono anche le performance ( Kaprow, Oldenburg, eredi in questo del dadaismo e futurismo ) che proseguono il cammino fino a oggi, facendo diventare il corpo luogo e prodotto artistico ( M. Abramovic ), coadiuvato da teatro, danza, musica, elementi etnici e documentato dai video e dalle foto. Negli anni settanta e ottanta si diffondono i graffiti a New York ( Keith Haring, Basquiat ), mentre in Europa la Transavanguardia ( Chia, Cucchi, Clemente, Paladino, De Maria, Baselitz, Dokoupil, Kiefer ) ripropone la pittura. Per questi artisti si sta come chiudendo il corso dell’ avventura del Novecento e si riapre il ricorso dell’ arte, della pittura postmoderna. Non si vede ancora la fine di tutto questo processo immenso che è avvenuto nel Novecento, che è stato come un nuovo Rinascimento corrispondente alla civiltà industriale e tecnologica come il primo lo era di quella umanistica. Il movimento creativo è stato grandissimo. Ha sconcertato, nelle situazioni limite continua a suscitare perplessità. E’ naturale, perché è stato una generale rottura di tutto il mondo statico canonico. Tuttavia ormai si comincia a vedere un po’ chiaro in questo grande flusso storico. Se vi sono stati giudizi negativi o critici, se continuano a sussistere perplessità, ciò è dovuto al fatto di guardare il nuovo con occhi vecchi. Per valutare il nuovo ci si serviva dei criteri fondati sull’ arte mimetica, di realtà, di rappresentazione, di figuralità, mentre i paradigmi con cui guardare e valutare oggi è chiaro che devono essere quelli della creatività e della soggettività artistica.
Per non stancare qualche eventuale lettore, ulteriori specificazioni saranno affrontate in un nuovo contributo.

Non funzionando il comando commenti e altre attività della Bacheca, posto due commenti di Adriano Maini, che ringrazio:

Un post veramente interessante, che mi ha fatto scoprire particolari ed anche fattori per me inediti.
02 giugno 2011 00:15
A fronte di un articolo così spesso, non posso che limitarmi all'ammirazione di Monet per la luce mediterranea delle Due Riviere.
14/10/2011 17.13

mercoledì 12 ottobre 2011

Di prossima pubblicazione


Carrela De Cuventu è il libro di prossima pubblicazione della scrittrice in lingua sarda, Teresa Lonis, che non è nuova a usare la propria lingua nativa come dimostrano i premi e concorsi a cui ha partecipato e qui di seguito segnalati:

. Doddore Licò, primo premio LIMBA E AMMENTOS, Ittiri 2005
. Dominigheddu, terzo premio NANNEDDU CHIGHINE, Ittireddu 2006
. Su saccapane, secondo premio ELIGHES 'UTTIOSOS, Santu Lussurgiu 2008
. A carrasegare si curriat sa pudda, menzione LIMBA E AMMENTOS, Ittiri 2009,
. Mal’ astru, terzo premio LIMBA E AMMENTOS, Ittiri 2010
. Amigos, secondo premo ELIGHES 'UTTIOSOS, Santu Lussurgiu 2010
. Masgarida e Clara, terzo premio PAULICU MOSSA, Bonorva 2010
. Sa gavetta, menzione LIMBA E AMMENTOS, Ittiri 2011

Ecco come la scrittrice presenta Carela De Cuventu:

Presentada

So ‘ittiresa e so naschida in d’una domo de carrela ‘e cuventu, in ue so vivida, francu su tempus chi so istada in Thatari pro istudiare, fintzas a cando no mi so cojuada.
Comente sos ammentos de pitzinnia s’accherant, torro insegus cun sa mente a sos annos passados in cussa carrela, in sos intorinos de cuventu e Santa Rughe, in ue fumis tottu padrones e chi faghiant paste de sa vida, ca fut su logu de sos giogos, de s’allegria, de brigas e cundierras e puru de dolores
Su chi naro in custu libereddu, creo siat restadu in s’ammentu de tottu sos chi mi sunt istados cumpagnos in cussos annos bellos e ipero chi l’ apant arribadu.

Per saperne di più, in attesa dell' uscita dell' opera, penso possa essere utile questa mia breve introduzione:

Carrela De Cuventu è un bel libro in lingua sarda della scrittrice ittirese Teresa Lonis, più volte premiata nei concorsi in limba. Prossimamente un pubblico più vasto potrà conoscere e apprezzare la produzione della scrittrice, che esordisce con quest’ opera di storia locale e memoria personale, ma a cui seguiranno a breve altre di natura specificamente narrativa.
Carrela, la strada, è una bella parola in sé e un bel luogo deputato dei giochi d’ un tempo narrati nel libro, perfino di molti mestieri non più in uso, della consumazione di cibi, di feste di Santi e delle proposte di rimedi per ogni male. Nella strada c’ è tutto, passa tutto quello che è divertimento, utilità sociale, notizie e annunci, teatro di vita e di comunicazione, profano e sacro. E tutto questo in una porzione di strada, quella De Cuventu, ma tutte le altre sono altrettanto nell’ ambito di quel contesto di civiltà preindustriale.
Carrela non è solo la bella parola-espressione, metafora e sintesi di tutta una civiltà, ma è anche il richiamo di tante altre parole, proprie della lingua sarda, che hanno una grande pregnanza di significazioni. Un esempio per tutte la parola Incunza, la raccolta. Se riferita al grano, indica insieme la mietitura, la trebbiatura, la ventilatura, la riposizione del prezioso cereale e della paglia.
In Carrela De Cuventu si respira un sapore antico, un profumo di cose ed eventi di altri tempi, che la narrazione fa sentire come se fossero ancora realtà presenti. Si ritrova il tempo andato, l’ infanzia, l’ incontro, lo scambio, la coralità. Si comprende che vi erano valori di cui manchiamo e di cui soffriamo la perdita oggi. È sorprendente tanta spontaneità di scrittura viva ed ancor più sorprendente è il fatto che la scrittrice fin da piccola avvertisse acutamente il gusto di queste realtà, le imprimesse nella memoria, nella propria vita e ne serbasse vivace ricordo nella lingua originaria. L’ uso della lingua sarda in Carrela De Cuventu non è pertanto una riscoperta, un’ acquisizione degli anni della consapevolezza, della cultura, ma l’ espressione del mondo vissuto ed evocato. Non è un artificio culturale, un’ adesione al ricupero linguistico perseguito in questi ultimi cinquant’ anni, ma il mezzo spontaneo connaturato e maturato nel contesto di una civiltà. E’ qui il segreto della bellezza e della piacevolezza della scrittura di Teresa Lonis, il pregio della sua opera e anche il merito, perché nell’ evoluzione linguistica e civile della società, conserva un patrimonio di lingua, di vita, di testimonianza coeva, di documentazione vissuta di usi e costumi del passato, con colorita narrazione e piacevolezza di stile. Un interessante libro, dunque, d’ esordio della scrittrice che non ha solo sogni nel cassetto, ma altre opere di pronta pubblicazione.

lunedì 15 agosto 2011

AVE MARY



Non ho il piacere di conoscerti, ma mi permetto di darti ugualmente del tu, per esprimerti con più immediatezza e calore la mia gioia di aver letto il tuo libro. Sapere che i lettori leggono con gioia i tuoi libri, credo sia gratificante. Perciò mi perdonerai la libertà che mi sono presa. Quando sono andato per acquistarlo, con mia grande sorpresa, ho saputo che ce n’ era ancora una copia, in un locale a parte, custodita sotto chiave. Ho pensato che era un libro prezioso, se era custodito sotto chiave e sotto tanti aspetti lo è, perché difende le donne e dal nemico peggiore e subdolo, il sacralismo, astuto come il serpente che tenta Eva nell’ Eden, ma il motivo era che tutti i libri Einaudi e Adelphi, da tre anni, venivano sistematicamente rubati da una banda di extracomunitari che poi li rivendevano sulle spiagge del Centro Sud. Niente mi è nuovo delle problematiche da te trattate, ma il tuo coraggio, un po’ provocatorio, un po’ giovanile, un po’ utopistico, un po’ da studiosa che giustamente spera, merita di essere accolto con piacere. Pertanto, posso esclamare: brava, Michela Murgia, che, con la tua penetrante intelligenza e la tua informazione-formazione religiosa e teologica, hai avuto il coraggio di affrontare il maschilismo dei patriarchi di ogni specie, sacri e profani, antichi e attuali.

Sarei presuntuoso e offenderei i tuoi lettori, se volessi spiegare chi sei e che sei l’ autrice del bestseller Accabadora, Vincitore Premio Campiello Letteratura 2010. Dico subito invece che il titolo AVE MARY rivela già molto della chiave di scrittura del tuo piacevole e brillante “ saggio ”, dallo stile fortemente argomentativo e bello. Saggio tra virgolette, perché un saggio specie quando entra nei territori del sacro, necessiterebbe di altro excursus e approfondimento. Un titolo tra latino italianizzato antico e inglese. Insomma un titolo desacralizzante, che abrade le incrostazioni del sacro che portano sicuramente conseguenze negative, un restyling che mentre restituisce la figura di Maria ( la Madonna, se qualcuno non lo avesse ancora pensato ), allo stesso tempo vuole impedire che sia ancora strumentale ai fini della subalternità e sottomissione della donna. E poi un titolo di salvaguardia dal vespaio che potrebbe eccitare. Giusto. Mary non è Maria. Un titolo ad effetto, alquanto ilare e che mette al riparo. Ancora più ad effetto e pubblicitario il sottotitolo E la Chiesa inventò la donna, infatti, ammetti ( p. 158 ) che questa invenzione di subordinazione tra i sessi esisteva già prima della Chiesa. La Chiesa, volontariamente o involontariamente, l’ ha legittimata.

Ho detto convintamente ‘ brava, Michela Murgia ’, ma qualcuna delle tante amichevoli puntualizzazioni che ho in mente, la esterno, senza voler togliere nulla al merito e al pregio del libro. Una certa puntigliosa enfatizzazione o amplificazione delle responsabilità storiche c’ è nel tuo “ saggio ”, forse più proprie del femminismo e della desacralizzazione anni settanta che del tuo pensiero; qualche semplificazione o sommarietà ermeneutica pure, soprattutto dell’ archetipo Efesini 5, 21-33, a proposito del quale vorrei chiederti se credi davvero all’ efficacia negativa di così vasta portata. Lo stereotipo di sposo - sposa che ne deriva, quando sopravvive, oggi è più sociale che ecclesiale e si combatte con le leggi. Nella più che legittima preoccupazione primaria di abbattere la subalternità, la subordinazione della donna, non sempre appare chiara la metodologia con cui leggi o ricostruisci la storia. A volte dai l’ impressione che la ricostruisci con la sensibilità e la cultura di oggi. Questo può essere utile a proporre il libro al pubblico, ma non giova all’ indagine storica. Ciò chiarisce anche perché ho scritto saggio tra virgolette. Il sacro, nella tua lettura, non è solo desacralizzato e concordo, ma è letto per lo più in chiave sociologica e dissento, perché per un credente è la fede la chiave di lettura, la quale esclude certo subordinazioni di ogni tipo. Le figure di Santa Maria del Consenso, La sovversiva, sono più sociologiche che teologiche, appartengono più alla cultura e sensibilità di oggi che al piano della fede. Lo stereotipo della Madonnina senza bambino non è solo di oggi, storia dell’ arte docet. I tuoi accenni a santa Maria Goretti, per esempio, sono più in linea con Povera santa, Povero assassino di Giordano Bruno Guerri che con la fede. La lettura sociologica porta al riduzionismo inaccettabile di figure di statura indiscutibile, una per tutte madre Teresa di Calcutta.

Non voglio continuare. A parte queste brevi osservazioni, per le quali spero non me ne voglia, mi sento di dire, a ragion veduta, che condivido molto del tuo libro. Sottoscrivo tanto delle tue disamine storiche, bibliche, patristiche, magisteriali, iconografiche, devozionali. Per cui al termine di questa nota personale a margine della lettura della tua opera, voglio ancora manifestarti il mio plauso. Hai scritto un libro che fa pensare e auguro contribuisca a migliorare la situazione-donna. Fai bene a non abbandonare la speranza, anche se la tua è una spes contra spem, che condivido, dal momento che alcuni passi, spesso, purtroppo, più di forma che di sostanza, sono stati compiuti dall’ 11 ottobre 1962 ad oggi e questo fa sperare, ma non abbastanza, perché il potere, la struttura patriarcale si trasformano e poco e lentissimamente cambiano.


sabato 13 agosto 2011

DAL MONDO APPARENTE AL MONDO REALE



Ginevra Bompiani e Roberta Einaudi, due figlie d’ arte, fondano nel 2002 la casa editrice Nottetempo, che pubblica libri importanti, magari anche di sconosciuti italiani e stranieri. Si dice che i libri importanti si leggono di notte, nel cuore della notte, appunto nottetempo. E’ esperienza di chiunque che i libri importanti si leggono, si studiano, si compulsano di giorno, tuttavia, è pur vero che molti si leggono anche di notte. Personalmente ne ho letti tanti di notte e tra i più impegnativi, quando la veglia resiste maledettamente al sonno. E’ bello, perché, nel silenzio della notte e nel buio tutto intorno, irrompe la luce che apre la mente, riscalda il cuore, fa crescere il pensiero, diverte l’ animo. L’ ultimo che ho letto appartiene a I classici del pensiero libero Libri che hanno cambiato il mondo, edizione speciale per “ Corriere della Sera ”, 2011. Il titolo italiano è SCRITTI SULLA LUCE E I COLORI di Isaac Newton. Siamo all’ epoca in cui i libri scientifici si scrivono in latino e magari con sottotitoli in lingua nazionale, infatti il titolo originale del trattato di Newton è Quaestiones quaedam philosophiae Of Colours Lectiones opticae New Theory about Light and Cololors Opticks ( 1672 ). Una lettura questa che fa bene a tutti, ma che potrebbe giovare in modo particolare ai pittori. Che libro immenso di un titano della scienza moderna! Quando fu pensato, sperimentato, provato, tradotto in legge era l’ epoca dei titani fondatori della scienza moderna. L’ epoca anche del Sidereus Nuncius ( prima edizione 1610 ) di Galileo Galilei. La lettura nella traduzione della nostra lingua certamente fa un po’ perdere lo smalto dell’ originale, tuttavia anche così si assapora non solo la grandezza del pensiero, ma anche la bellezza dell’ esposizione, della prosa, dello stile. Se i poeti e i letterati dell’ epoca avessero tutti letto libri di questo calibro, quanti fiumi di retorica, di non buona qualità letteraria ci avrebbero risparmiato! Allora il meglio della prosa e della poesia stava in questi titani della scienza moderna.


A un lettore comune e senza talento come me, sono serviti un po’ di pazienza e un po’ di coraggio per leggere il trattato di Newton. Un po’ di pazienza, perché non è così agevole districarsi tra osservazioni, esperimenti, proposizioni, definizioni, assiomi, teoremi dei due libri dell’ Ottica. Un po’ di coraggio, perché nonostante il piacere, il benessere interiore, il gran divertimento che se ne ricava, questi non sono così immediati e facili, stimolanti come quelli di una prosa, di una poesia, di una trama avventurosa o di un giallo. Ma come rendono, il centuplo per uno! Vedere Newton, che, con strumenti semplicissimi, ideati da lui, con metodi fino ad allora impensati, osserva la luce del sole, deduce, raccoglie, prova è cosa stupefacente. Il ragionare, con bellezza, con semplicità geniale, è estremamente affascinante e tanto più se si pensa che usa ancora i termini filosofia, filosofi, filosofare, cosa che appartiene a secoli passati, ma con l’ accezione di osservare, argomentare, sperimentare, provare, tradurre in leggi, cosa che apre decisamente ai secoli futuri. La sostanza del suo linguaggio è rivoluzionaria quanto quella delle sue scoperte. Pensa un trattato libero dal pensiero del passato e dalle pastoie mitico-religiose. Scrive un trattato che ha davvero cambiato il mondo. Ha fatto passare le menti dal mondo che appare al mondo che è, fondando una parte rilevante della nostra formazione culturale. Viene in mente l’ opera del primo giorno, quando “ Dio disse: ‘Sia la luce!’ e la luce fu” ( Genesi 1,3 ), ma questa era la luce da spiegare, da capire, luce che poteva illuminare gli occhi, ma non la mente. La luce che illuminava la mente l’ ha capita e spiegata Newton, tanto che il coevo grande poeta inglese Alexander Pope, nel poemetto Newton, poté scrivere:

Natura e le sue leggi erano oscure.

“ Che Newton sia”, Dio disse, e fu la luce

Immagine bellissima, divina, per descrivere l’ opera illuminatrice di uno dei grandi padri della fisica moderna. Newton, con il gioco dei suoi prismi, aveva squarciato il buio della mente e la natura e le sue leggi potevano apparire nei colori della comprensione.

Ogni libro anche il più modesto può essere di qualche utilità, ma se si vuole imparare davvero, bisogna andare ai grandi libri. Ricordo l’ umile, ma forte filosofo Domenico Bàrberi che, dalla nativa Viterbo, si trasferisce in Inghilterra nel 1842 e va spesso a disputare con gli illustri professori di Oxford. Usa dire: “ Se vuoi diventare grande non leggere libri piccoli ”. Sono più che persuaso che a leggere grandi libri, non diventerò mai grande, perché non ne ho il talento, ma sono altrettanto certo che dai grandi libri imparerò sempre molto.

Ben vengano le iniziative editoriali come queste dei grandi Quotidiani italiani!




lunedì 27 giugno 2011

LA MEDIAZIONE





La globalizzazione non solo economica, ma anche culturale, il mercato, la grande piazza comunicativa e mercantile di Internet, impongono qualche riflessione sulla mediazione del critico.

La globalizzazione produce assorbimenti, compenetrazioni di fenomeni culturali, sociali, comportamentali, politici. Sempre ci sono stati contatti, osmosi culturali tra i popoli, mediati o dagli spostamenti spontanei, dalle conquiste o dal mercato e dalla comunicazione dei mercanti, dai viaggiatori, ma oggi sono amplificati dalla comunicazione globale e la tendenza da parte dei più sensibili, non nuova, è quella di assimilare costumi e culture umanistiche e tecnologiche ritenute più avanzate o più portatrici di progresso, di benessere, di diritti personali o di accreditamento nello stato sociale. La globalizzazione culturale accentua questo processo. Anche se non investe totalmente le masse, questa trasmissione permea strati sempre più allargati, universalizzando costumi e gusti e fortunatamente l’ umanizzazione delle società. Il mercato, poi, pur non essendo la sola causa motrice della globalizzazione, la anima e la impronta fortemente. Questo si rende evidente più in alcune discipline che in altre: nella scienza, nella tecnologia, nella letteratura, nella musica, nell’ arte.

La forza del mercato sta agendo interessatamente e potentemente nell’ accogliere e promuovere il desiderio di cultura artistica o di status symbol che si sta diffondendo in varie parti del mondo, soprattutto in Africa ( grazie anche alla Biennale di Dakar ) e in Asia. Lo testimoniano la 54esima edizione della Biennale di Venezia, l’ Art/42/ Basel ( 15/19 - 6 - 2011 ), dOCUMENTA12 di Kassel ( dOCUMENTA, con la d minuscola e nel senso latino di “lezioni” ), Skulptur projekte di Munster e lo provano le cifre spuntate alle aste per gli artisti contemporanei che eguagliano o superano i grandi classici per prezzi e per numero di vendite. L’ arte contemporanea più a casa in ogni parte del mondo, perché meno specifica di una cultura visiva o di un’ area geografica, più rispondente ai multicanoni estetici globali, è in testa ai realizzi.

Non solo il mercato, ma anche l’ efficacia, la praticità, lo stimolo straordinari di Internet alimentano senza pari l’ informazione sul mercato stesso dell’ arte, il confronto artistico, lo scambio di idee, la proiezione verso l’ acquisto dell’ oggetto del desiderio culturale, il superamento della monocultura e del monocanone estetico, il potenziamento della globalizzazione della conoscenza dell’ arte come arte e come status symbol. Sulla grande agorà della Rete, che avvolge il globo, più che altrove scompaiono ruoli e realtà e ne nascono di nuovi. Si origina qualche riflessione a proposito della critica artistica e letterararia.

Non è solo la globalizzazione, il mercato, ma soprattutto Internet che pone il problema se ha ancora senso la mediazione, il ruolo del critico.

In presenza della globalizzazione che veicola conoscenze, del mercato che le particolarizza in esposizioni e vendite, avvicinandole concretamente, di Internet che fa entrare in dialogo, in confronto e scambio di cultura di ogni genere e livello, che informa e forma, affina e dota di capacità di lettura e interpretative, ha ancora senso nell’ arte il ruolo del critico, dell’ interprete, del mediatore tra opere e pubblico? La risposta non può essere assoluta, netta, senza distinzioni, da manifesto iconoclasta, provocatorio o esibizionistico. Come ogni cultura specialistica, gerarchica, anche quella del critico continuerà a svolgere il suo ruolo, specie in ambiti deputati ( formazione, insegnamento, perizie, lavoro di curatori di mostre e allestimenti, ecc. ), ma fortunatamente in strati sempre in aumento di popolazione la crescita e la maturazione culturale favorite dalle stesse concezioni dell’arte moderna, dalla scolarizzazione di massa, dalla globalizzazione, dal mercato, da Internet in modo notevole, smitizzano e smagriscono il ruolo, la riserva, il controllo dell’ interprete tra opere e pubblico. Negli strati dove c’ è cultura il suo ruolo diventa pleonastico, il fruitore o l’ amatore collezionista lo assorbono. Dove non c’ è sufficiente cultura non è utile, le sue alchimie linguistiche non possono essere nemmeno capite. I frequentatori non solo delle grandi fiere e biennali internazionali, ma anche delle mostre nazionali un po’ meno altisonanti si muovono per proprio impulso, informazione, gusto, cultura, scelta.

Anche nella letteratura il ruolo del critico finisce spesso in quello del lettore stesso. A proposito della poesia e narrativa, il fatto è evidente più che nell’ arte. E qui Internet lo attesta con il pullulare di portali dove poeti e narratori postano, recensiscono, criticano. Si ha quasi l’ impressione che tutta l’ editoria finisca on line ( non ci si lasci però ingannare dall’ “ampiezza” dell’ entrare; la prima ventata di euforia della new economy dovrebbe insegnare qualche cosa ) e che la critica come specializzazione sia finita. Certamente il fenomeno è grande e l’ esercizio critico dei lettori, narratori, poeti ( tutti leggono e commentano tutti e tutto ) non è trascurabile sia per estensione sia tante volte per qualità, segno anche qui che l’ interprete tra opere e pubblico, a un certo livello di cultura, non è più necessario. Fenomeni in crescita questi che riguardano specialmente l’ arte e la letteratura, frutto di attività antiche e di nuove tecnologie, marcatore di un lento, ma inarrestabile cammino positivo verso anche la libertà del sapere, della cultura e della promozione dell’ individuo da un estremo all’ altro del globo, che solo l’ attuale sviluppo delle medialità poteva portare. È diminuito il potere delle élite culturali che mediavano il sapere, che avevano in mano l’ interpretazione, ma è cresciuto enormemente e felicemente quello delle capacità delle persone in tutto il mondo.

mercoledì 8 giugno 2011

Il cammino dell' arte contemporanea


 Dal " Corriere della Sera "

Per meglio comprendere il cammino dell’ arte contemporanea è utile ricordare che dall’ antichità al Novecento l’ arte è sempre stata espressione del bello o anche espressione bella del brutto, forse per rafforzarne il senso.
Nel greco classico Kalòs ( bello, buono, virtuoso, ideale, perfetto, ecc. ) e Kakòs ( brutto, cattivo, malvagio, imperfetto, inadatto, ecc. ) avevano tanti significati e tutti riferiti a qualità, a pregi o a difetti, mancanze, ecc. Anche nel greco Koinè, quello diffuso dalle conquiste asiatiche di Alessandro Magno, Kalòs significava bello, buono, ideale, perfetto. Queste significazioni, arricchite nei secoli di accentuazioni proprie, istintivamente sono pervenute fino a noi, tanto è vero che in qualche caso incliniamo a vedere nella persona bella una persona buona e nella persona brutta una persona cattiva. Infatti si sente dire l’ espressione: “ Si vede anche dalla faccia che è un poco di buono, un delinquente ”. Errate e pregiudizievoli connotazioni morali già presenti nel secondo libro dell’ Iliade a proposito di Tersite, nella giurisprudenza del Medioevo, nella visione scientifica positivista di Cesare Lombroso. I canoni della bellezza dell’ arte classica e dell’ arte fino all’ Ottocento, quando iniziarono segni di deregulation e poi di sbriciolamento che si consumarono nel Novecento, si ispirarono sempre a questi concetti di bello e di brutto, a prescindere che per i Greci la bellezza fosse come un essere a sé, quasi una divinità, convinzione che si protrasse nel tempo al punto che poi i filosofi scolastici del Medioevo affermarono che Ens et pulchrum convertuntur, vale a dire che Dio e la bellezza sono la stessa cosa.
Nel Novecento avvengono grandi cambiamenti nel cammino dell’ arte, che sconcertano, sorprendono, colgono impreparati, portano a rifiuti, ad accoglienze acritiche, a negazioni ed esaltazioni. Fanno discutere, non possono essere ignorati e crescono in progressione fino a quella che l’ intestazione di un sito chiama Babele Arte. Si spostano i confini di tutto e tutto può venire assunto a oggetto d’ arte o ad arte stessa, semplicemente decontestualizzandolo, come avviene nel ready made iniziato con l’ Orinatoio ( fontana ), 1917, di Marcel Duchamp. I cambiamenti investono tutto dell’ arte. Si moltiplicano i manifesti, i movimenti e le correnti delle correnti. E il processo è tuttora in continua evoluzione. Si persegue la distruzione, la decostruzione di un mondo estetico per crearne altri. Più che legittimo. C. G. Jung avrebbe potuto dire all’ artista: “ Non sia d’ altri chi può appartenere a se stesso” o ancora: “ Chi altri deve vivere la tua vita se non tu stesso? ”. L’ artista vuole appartenere a se stesso, al proprio tempo, alla propria civiltà, vuole vivere la propria vita anche artisticamente, non imitare, ma emulare con una diversa originale creatività. Nell’ Umanesimo-Rinascimento l’ emulazione era con Dio, qui è con tutta l’ arte del passato. L’ homo quidam deus di Marsilio Ficino, quello che emula, è il quidam deus di contro a tutti gli altri artisti che lo hanno preceduto. E così cambia tutto quello che può. Uno dei tantissimi cambiamenti riguarda il bello e il brutto. Si va spesso dall’ estetica della bellezza all’ estetica della bruttezza. Non che in passato non si rappresentasse la bruttezza, basti pensare a Hieronymus Bosch, un solo nome per tutti. Ma la bruttezza era sempre rappresentata con le classiche connotazioni morali e con l’ espressione bella anche del brutto. Nell’ Urlo ( 1893 ) di Münch c’ è il brutto, il timore panico, l’ angoscia, non con una rappresentazione bella, ma con una espressione efficace, artisticamente e tecnicamente molto alta. Nel Novecento non interessa più rappresentare in modo bello la bruttezza. Il segno del cambiamento è proprio qui. Non solo, così spesso, si rappresenta la bruttezza, l’ orrendo, il raccapricciante, ma anche la modalità è della stessa natura. E’ un secolo dominato dalle orribili brutture delle due guerre mondiali, dal dominio di disumani e folli totalitarismi. Tutto questo ha un pesante riflesso sulle espressioni artistiche. Come il poeta Ungaretti, uscito dalla guerra sul Carso, vedeva che tra le tante città distrutte, la più distrutta era la sua anima, così l’ artista del Novecento, porta spesso dentro di sé questo paesaggio di distruzione e di morte e lo esprime in tante forme e maniere. Contenuti e forme espressive negative vanno di pari passo. In tutto vale l’ estetica della bruttezza. Il brutto non lo si ammanta più del bello. Non lo si riveste come nell’ arte del passato, lo si esibisce come tale. La modalità è una scelta non più estetica, ma etica, di giudizio. Rafforza il concetto del negativo. Ne sottolinea sinistramente la vitalità, proprio come diceva il titolo di una mostra degli anni settanta Vitalità del negativo, organizzata da Incontri Internazionali d’ Arte. Non c’ è chi non veda questo segno di cambiamento, di spostamento dal bello al brutto, sia pure un brutto espresso da un artista, anche se non infrequentemente nel Novecento questo brutto è  brutto davvero artisticamente e tecnicamente. Si pensi pure anche a tante esposizioni al Padiglione Italia della 54a  Biennale di Venezia, dove, spesso, l’ occhio più che all’ arte è mirato alle trovate, allo stupire, alla meraviglia barocca, al marketing, al sensazionalismo personale, tipo quello di Maurizio Cattelan con i suoi duemila colombi imbalsamati.
L’ artista del Novecento è riuscito davvero a emulare e quanto? Solo la distanza negli anni sarà in grado di valutare. Siamo ancora dentro o per lo meno a ridosso e non siamo in grado di vedere bene, solo la prospettiva del tempo potrà analizzare, soppesare e giudicare criticamente. E per di più l’ ambiente è inquinato da tanti interessi e interferenze del mercato e, secondo l’ invettiva di Vittorio Sgarbi, anche della moda che ha mercificato l’ arte. Un grandissimo merito dell’ artista del Novecento, però, è ben chiaro fin da oggi: l’ aver spostato i confini dell’arte, del gusto, dell’ interesse, della cultura; l’ aver sprigionato tutta la forza dello spirito creativo e aver capito che tutto è esplorabile e degno del fare, del gesto artistico. In questo senso l’ artista del Novecento è un vero demiurgo, un grande emulatore, un creatore di un nuovo Rinascimento e molto spesso di un nuovo Barocco, si guardi alle installazioni, agli impacchettamenti, ecc.
I grandi sconvolgimenti artistici del Novecento richiedono cambiamenti anche in chi osserva l’ opera d’ arte. Il semplice vedere non è stato mai sufficiente, ma oggi non lo è più neppure il solo guardare. Nel Novecento e ancor più via via fino ai giorni attuali l’ atto del guardare non basta per porsi di fronte a un lavoro che viene presentato come opera d’ arte.  Il solo atto del guardare molte volte non riesce a vedere se c’ è e dov’ è l’ opera d’ arte. E’ evidente che occorre altro. Si comprende che le opere che si vedono, frequentemente, non sono  arte da guardare, ma da pensare. L’ estetica dello sguardo, che analizza le forme, i colori, non è più sufficiente, occorre andare all’ estetica del significato. Che cosa poteva dire il solo sguardo del Brillo Box ( 1964 ) di Andy  Warhol?  E’ evidente che era necessario fare un ulteriore spostamento dall’ arte dello sguardo all’ arte del significato, dalle opere da guardare alle opere da pensare, dove anche il banale, l’ ovvio, il brutto della realtà diventa il bello del pensiero, conferendogli una dimensione trasfigurata. Se in Duchamp vi era la semplice oggettività decontestualizzata, in Warhol vi è la soggettività che ripensa,  relaziona e connota la cosa. Se nel primo bastava l’ estetica dello sguardo, nel secondo occorre anche quella del significato, in quanto l’ opera è nata da un atto di pensiero. Si può discutere sull’ estetica del significato, che certamente nasconde il pericolo di cancellare i criteri di giudizio, di ridurre in modo estremo l’ arte, di confinarla nel pensiero e di avallare tutto come arte,  ma come leggere, interpretare, considerare, senza di essa, tanta produzione artistica del Novecento? Sono domande che generano altre domande, ma è necessario porsele, se si vuole tentare di trovare la strada nel labirinto dell’ arte contemporanea, che investe anche i musei, i quali si stanno trasformando da luoghi di conservazione a spazi tematici.
I cambiamenti nell’ arte del Novecento e di questo primo decennio del Duemila potrebbero dar luogo a illimitate riflessioni sui molteplici aspetti, ma certamente quelle sull’ estetica del bello, del brutto e del significato sono ineludibili.


sabato 14 maggio 2011

LA SCOMMESSA








Con Cartesio, Blaise Pascal e in modo particolare con Galileo, nella speculazione filosofica, si sta passando dall’ ontologia all’ epistemologia, dalla filosofia dell’ essere alla conoscenza certa, cioè alla scienza.

Per chi non ha familiarità con i termini ontologia, epistemologia, ontologia vuol dire discorso sull’ essere concreto e anche pensabile ed epistemologia significa discorso sulla conoscenza certa, che è la conoscenza provata sperimentalmente, vale a dire è la scienza.
Anche il calcolo delle probabilità, a cui hanno lavorato Pierre de Fermat e Blaise Pascal ( 1654 ), cade sotto l’ epistemologia.
Il calcolo di probabilità viene sempre evocato dagli atei, con ampie dimostrazioni quali si applicano ai giochi d’ azzardo, per mettere in discussione e negare la famosa scommessa ( sinonimo di scelta o meglio ancora di opzione fondamentale ) di Pascal sull’ esistenza di Dio. Al riguardo si può vedere la voce dell’ enciclopedia filosofica della Stanford University, a cui attingono o copiano piuttosto pedissequamente un po’ tutti coloro che trattano l’ argomento ( http://plato.stanford.edu/entries/pascal-wager/ ) e ne ripetono l’ errore fondamentale che è quello di interpretare il pensiero 233 ( il solo citato ) senza vederlo nel contesto degli altri pensieri che chiariscono la visione del grande matematico, fisico, filosofo e teologo francese. Errore schematizzato anche nel bel film ( forse definirlo capolavoro è un po’ troppo ) di Eric Rohmer La mia notte con Maud ( 1969 ). Ma nel film la cosa è comprensibile, perché l’ esigenza dello spettacolo non consente di articolare un discorso sulla visione complessiva del pensatore di Clermont-Ferrand, specie se il discorso è programmatico e finalizzato ai racconti morali tipici del cattolico Rohmer. Il taglio esistenzialistico dato da Rohmer, uno dei maggiori esponenti della Nouvelle Vague,  è certamente in linea con la filosofia-teologia di Pascal. Invece la lettura marxista è solo per contrappore dialetticamente i protagonisti e in parte per concedere un tributo alla moda culturale imperante.
Ecco il testo pascaliano:

Ebbene, esaminiamo questo punto e cominciamo col dire: “Dio esiste o non esiste”.
Ma da qual parte inclineremo? La ragione qui non può determinare nulla: a separarci
da ciò che cerchiamo c’ è di mezzo un caos infinito. Si gioca una partita, all’estremità di
questa infinita distanza, e in essa risulterà croce o faccia. Su quale delle due
scommetterete? Secondo ragione, non potete dire né l’uno né l’altro; secondo ragione,
non potete escludere nessuno dei due casi. Non imputate dunque di errore quelli che
hanno compiuto una scelta, perché voi non ne sapete nulla.
No; ma io li biasimo di aver fatto, non quella scelta, ma una scelta: perché, anche se
tanto colui che sceglie croce quanto l’altro incorrano in un errore analogo, quel che
conta è che tutti e due sono in errore; il partito giusto è di non scommettere affatto.
Sì; ma è necessario scommettere; ciò non è affatto facoltativo, voi siete imbarcato.
Quale dei due prenderete, dunque? Vediamo. Poiché scegliere bisogna, vediamo ciò
che vi interessa di meno. Voi avete due cose da perdere: il vero e il bene; e due cose da
impegnare nel gioco: la vostra ragione e la vostra volontà, la vostra conoscenza e la
vostra beatitudine; e la vostra natura ha due cose da fuggire: l’errore e la miseria.
La vostra ragione non riceve maggior danno scegliendo l’uno che scegliendo l’altro,
perché bisogna scegliere necessariamente. Ecco un punto liquidato. Ma la
vostra beatitudine? Pesiamo il guadagno e la perdita, dando a croce il senso che Dio
esiste. Valutiamo questi due casi: se guadagnate, voi guadagnate tutto; se perdete,
non perdete niente. Scommettete dunque che egli esiste, senza esitare.
È magnifico! ( Pensiero 233 )

E’ sbagliato e contro il pensiero stesso di Pascal vedere in questa argomentazione una “prova” di Dio. Non è questo il senso inteso da Pascal e ancora più errato fermarsi a scrivere formule di matematica per dimostrare, come nei giochi, che si perde sempre o quasi sempre la posta, che il ragionamento di Pascal non regge all’ analisi matematica e che non prova neppure la convenienza di scommettere su Dio. La scommessa non è affatto banale o superficiale  o come voleva Voltaire “un po' indecente o puerile: questa idea di gioco, di perdita e di guadagno, non si addice alla gravità dell'argomento”. Niente di più lontano dal pensiero di Pascal e dal suo modo di vivere. Dopo la sua morte fu trovato cucito nel vestito un suo pensiero che è un inno non al Dio dei dotti, dei filosofi, ma di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Gesù Cristo, che è Dio di amore e misericordia, di confidenza, di gioia.
Pur percependo, dietro l’ argomentare, il matematico del calcolo delle probabilità, non si può affermare che Pascal formulava un ragionamento pari a quello che si usa per calcolare le probabilità di vincita nella posta del gioco. Adoperava un linguaggio di gioco, ma non nel senso della quantità e della probabilità, ma di pura somiglianza apparente. Il linguaggio della partita, del gioco, di croce e faccia, della posta da impegnare, del guadagno, della perdita è solo analogico, persuasivo, non è procedurale, non è dimostrativo. Pertanto è inutile stornare il pensiero di Pascal su un piano matematico, quando il suo vero piano è esclusivamente esistenziale. Giustamente Pascal viene visto come un antesignano dell’ esistenzialismo, a cui guardava molto Soren Kierkegaard, che ne è il padre. Pascal, inventore o coinventore del calcolo della probabilità, che a soli dodici anni scrive un prodigioso trattato di matematica, è troppo grande per non vedere che sotto l’ aspetto matematico il suo argomentare non regge ed è troppo intelligente per non sapere che non è possibile fare il salto dall’ epistemologico all’ ontologico. Lo afferma esplicitamente: “ La ragione qui non può determinare nulla. Pascal fa un passaggio dal matematico al pratico-esistenziale. Non intende spingere il discorso sul terreno dell’ analisi matematica sul quale certamente si sa perdente, ma spostare la scommessa sul piano della decisione, sul quale il suo ragionamento risulta non perdente anche nel caso che non sia vincente. Lo scopo di Pascal è di fuggire dall’ errore e dalla miseria, cioè dalla disperazione e dal limite intrinseco dell’ essere umano e da qui fuggire non con un sapere tabellare, scientifico, analitico, che nasce da spirito di geometria, ma con una conoscenza esistenziale, che è frutto di spirito di finezza, lo spirito del cuore, che ha ragioni, che la ragione non conosce ( per questo, poco più che ventenne e dopo aver segnato l' inizio dei calcolatori moderni con la sua pascalina e tappe assolutamente fondamentali nella storia della matematica e della fisica, comprendendo che non possono dare risposte di senso ultimo, abbandona per sempre queste discipline ). Questo duplice spirito non si contrappone, non si avversa, ma si completa. La scienza che si fonda sullo spirito di geometria e la fede sullo spirito di finezza hanno bisogno l’ una dell’ altra ( Pensieri, 282 ). La fede è l’ unico rimedio all’ errore e alla miseria. La fede è una scelta personale e non può scaturire da prove razionali, per questo prende le distanze dalla razionalità di Cartesio e dalla sua prova dell’ esistenza di Dio basata sul metodo del dubbio. Scegliere è una necessità. Tra Dio è o non è, scegliere Dio è, ci si apre all’ infinito, si supera l’ errore e la miseria e ci si salva.