venerdì 14 ottobre 2011

ILLUMInations

C. Monet, Impressione, levar del sole ( 1872 )
La 54esima Biennale Internazionale d’ Arte, che sì svolgerà dal 4 giugno al 27 novembre 2011 ai Giardini e all’ Arsenale, dal titolo plurisignificativo e allusivo, ILLUMInations, è occasione per ripensare le linee di svolgimento del Novecento Artistico.
La linea di svolgimento di qualsiasi pittore o scultore, con un curriculum di formazione accademica, fin verso la metà dell’ Ottocento, muove sempre da studi, conoscenze, regole, osservazioni, confronti, apprendistato, esercizio, sperimentazione di tecniche, materie. Mira a produrre un’ arte leggibile, basata su valori riconoscibili, canonici; è linea di figure, di rappresentazione realistica, di riproduzione del reale, entro cui l’ artista tende a una propria identità, a stilemi personali. Ma a partire almeno dall’ Impressionismo ( Monet, Renoir, Sisley, Pissarro; il quadro Impressione, levar del sole di C. Monet è del 1872 ) molte cose cambiano, l’ artista si allontana da questa linea, ne va ben oltre e allarga enormemente il campo, i confini, le significazioni, la creatività dell’ arte e sempre più procede verso un’ espressione artistica non accademica, non canonica. Perfino i luoghi di elaborazione mutano, gli impressionisti si spostano dal chiuso all’ aperto, dallo studio all’ en plein air. Si prospetta così l’ immenso panorama variegato ( difficile da sintetizzare ) e perpetuamente instabile del ‘900, con un comune denominatore: la trasformazione o l’ abolizione della figura e della rappresentazione realistica, la sperimentazione a tutto campo. Si aprono indefinite vie al superamento della rappresentazione realistica e della figura.  Si passa dall’ arte di figure, di oggettività, all’ arte di soggettività di ogni tipo di espressione, di esperienze e di sperimentazione, che investono tutto il fare artistico, il porsi, il destinarsi come luoghi e collocazione delle opere create. Pensiamo alle opere di grandi dimensioni, alle installazioni che si avvalgono della multimedialità informatica e tecnologica ( Kentridge, Wall, Aitken ), alla Land Art ( Smithson, Heizer ), agli impacchettamenti di Christo, agli enormi sacchi di Burri. Molte opere, infatti, non potranno più andare in luoghi come case, date le dimensioni o la natura virtuale. L’ arte ormai ha rotto ogni sudditanza o vincolo a figure, regole, luoghi, operatività, contenuti, materie. Si sente libera e liberamente si esprime. La creatività è intesa sia come nuova espressione sia, tante volte, nei casi peggiori, da parte dei meno consapevoli e meno preparati o dotati, anche solo come rottura. E di evoluzione in evoluzione si passa dall’ arte come prodotto di un’ idea, all’ arte il cui prodotto o valore è solo l’ idea. L’ arte ridotta a pensiero. Tanto operare del Novecento non porta a un prodotto come opera d’ arte, ma semplicemente a un’ idea come esito artistico finale. Si pensi ad alcune espressioni di  arte-idea di Piero Manzoni. E da Manzoni in poi, tante altre trovate, esibizioni, manifestazioni dove di arte c’ è solo l’ idea, magari geniale, ma soltano idea.
Nel Novecento l’ arte non poteva continuare ad essere o a ripetere quella del passato, non solo per l’ esigenza di trovare qualche cosa di nuovo, ma soprattutto perché la civiltà era cambiata e perché le scienze, la psicoanalisi, la narrativa, la poesia avevano aperto nuove strade in tutti i campi della conoscenza e dell’ esplorazione della realtà o della psiche e queste nuove aperture e dimensioni l’ arte si apprestava a esprimere. Le descrizioni, la rappresentazione realistica non scompaiono, ma non è più questo il segno generale e là dove resiste, si carica di aspetti, significazioni, atmosfere e modalità diverse. Prima era la realtà che si imponeva all’ artista, ora è questi che si impone alla realtà. Un rovesciamento delle parti, un passaggio dall’ oggettività alla soggettività e il cammino non è ancora esaurito, continua a cercare nuove espressioni fino ad arrivare alla Body Art, all’ arte virtuale come esito finale di molte performance o della Computer Art.
La realtà dell’ Impressionismo o quella della Pop Art (  Rauschenberg, Warhol,
Lichtenstein, Oldenburg; in Italia E. Tadini ) non è più imitazione né lo è quella dei postimpressionisti ( Van Gogh, Gauguin, Cézanne ), dei simbolisti ( G. Moreau, P. Puvis de Chavannes,  A. Bresdin, O. Redon, P. Gauguin, A. Maillol, M. Denis, P. Sérusier ) o dei surrealisti ( Ernst, Mirò, Dalì, Magritte, Delvaux, Tanguy, Man Ray ). Con la Metafisica ( valga un nome solo, De Chirico ) si esprime l’ intento di andare oltre la “ fusis ”, la natura, la realtà, diffondendo senso di mistero, di enigma. Con l’ estraniamento dal contesto, la dislocazione, la manipolazione degli oggetti da parte dei dadaisti ( Tzara, Arp, Man Ray, Huelsenbeck, Duchamp ) si crea un’ altra realtà. O la si geometrizza, la si scompone con il cubismo ( erede di Cézanne ), prescindendo da prospettiva e profondità ( Picasso, Braque, Gris; in Italia U. Sambruni  ) o nell’ Espressionismo con i fauves ( Matisse, Derain e De Vlaminck e poi Kirchner, Nolde, Kandinskij, Marc, Beckmann, Munch )  le si toglie il primato dato invece al colore espressivo. La realtà in sé non richiama i futuristi ( Boccioni, Balla, Carrà, Severini, Depero, Russolo, Prampolini, A. Pevsner ) quanto piuttosto la rappresentazione della velocità, dell’ energia, del movimento, del tempo che scorre. Un qualcosa che ritorna nell’ Action Painting anni sessanta ( Pollock )  e che si fa segno, gesto negli artisti della New York School. Il realismo delle neoavanguardie del Novecento ( Picasso, Severini, De Chirico, Sironi, E. Hopper, ecc. ) e delle correnti d’ ispirazione realistica del secondo dopoguerra hanno una sensibilità che non è più quella  classica. Lo stesso vale per l’ Iperrealismo statunitense anni sessanta ( R. Artschwager, S. Posen, Ch. Close, R. Estes,  J. De Andrea, D. Hanson ). La parola che lo designa dice tutto. Anche il realismo dell’ arte sovietica ( Larionov, Malevic, Lissitkij, Tatlin ), retorica, celebrativa del regime, non può essere riportato alla rappresentazione classica.
Negli anni sessanta-settanta vanno ben oltre la rappresentazione della realtà l’ arte concettuale, atto di creazione intellettuale ( Sol LeWitt, Kossuth; E. Tadini ), l’ arte povera che dalla realtà trae solo i materiali ( Merz, Kounellis, Penone, Anselmo, Boetti, Paolini ), l’ arte informale dei segni, dei gesti, delle materie più disparate, della libertà da ogni vincolo ( Dubuffet, Burri, Fontana, Tapis; U. Sambruni ), l’ arte della geometrizzazione ( quasi una nuova metafisica, nella New York anni sessanta ) delle tele ( Stella, Kelly ) e delle sculture ( Judd, Andre, Morris, Serra ). La geometria, anima ricorrente di tanta parte del Novecento artistico, attraversa il mondo di Mondrian, di Licini, dell’arte optical, dell’ architettura del Bauhaus.
Dai fervidi anni sessanta nascono anche le performance ( Kaprow, Oldenburg, eredi in questo del dadaismo e futurismo ) che proseguono il cammino fino a oggi, facendo diventare il corpo luogo e prodotto artistico ( M. Abramovic ), coadiuvato da teatro, danza, musica, elementi etnici e documentato dai video e dalle foto. Negli anni settanta e ottanta si diffondono i graffiti a New York ( Keith Haring, Basquiat ), mentre in Europa la Transavanguardia ( Chia, Cucchi, Clemente, Paladino, De Maria, Baselitz, Dokoupil, Kiefer ) ripropone la pittura. Per questi artisti si sta come chiudendo il corso dell’ avventura del Novecento e si riapre il ricorso dell’ arte, della pittura postmoderna. Non si vede ancora la fine di tutto questo processo immenso che è avvenuto nel Novecento, che è stato come un nuovo Rinascimento corrispondente alla civiltà industriale e tecnologica come il primo lo era di quella umanistica. Il movimento creativo è stato grandissimo. Ha sconcertato, nelle situazioni limite continua a suscitare perplessità. E’ naturale, perché è stato una generale rottura di tutto il mondo statico canonico. Tuttavia ormai si comincia a vedere un po’ chiaro in questo grande flusso storico. Se vi sono stati giudizi negativi o critici, se continuano a sussistere perplessità, ciò è dovuto al fatto di guardare il nuovo con occhi vecchi. Per valutare il nuovo ci si serviva dei criteri fondati sull’ arte mimetica, di realtà, di rappresentazione, di figuralità, mentre i paradigmi con cui guardare e valutare oggi è chiaro che devono essere quelli della creatività e della soggettività artistica.
Per non stancare qualche eventuale lettore, ulteriori specificazioni saranno affrontate in un nuovo contributo.

Non funzionando il comando commenti e altre attività della Bacheca, posto due commenti di Adriano Maini, che ringrazio:

Un post veramente interessante, che mi ha fatto scoprire particolari ed anche fattori per me inediti.
02 giugno 2011 00:15
A fronte di un articolo così spesso, non posso che limitarmi all'ammirazione di Monet per la luce mediterranea delle Due Riviere.
14/10/2011 17.13

mercoledì 12 ottobre 2011

Di prossima pubblicazione


Carrela De Cuventu è il libro di prossima pubblicazione della scrittrice in lingua sarda, Teresa Lonis, che non è nuova a usare la propria lingua nativa come dimostrano i premi e concorsi a cui ha partecipato e qui di seguito segnalati:

. Doddore Licò, primo premio LIMBA E AMMENTOS, Ittiri 2005
. Dominigheddu, terzo premio NANNEDDU CHIGHINE, Ittireddu 2006
. Su saccapane, secondo premio ELIGHES 'UTTIOSOS, Santu Lussurgiu 2008
. A carrasegare si curriat sa pudda, menzione LIMBA E AMMENTOS, Ittiri 2009,
. Mal’ astru, terzo premio LIMBA E AMMENTOS, Ittiri 2010
. Amigos, secondo premo ELIGHES 'UTTIOSOS, Santu Lussurgiu 2010
. Masgarida e Clara, terzo premio PAULICU MOSSA, Bonorva 2010
. Sa gavetta, menzione LIMBA E AMMENTOS, Ittiri 2011

Ecco come la scrittrice presenta Carela De Cuventu:

Presentada

So ‘ittiresa e so naschida in d’una domo de carrela ‘e cuventu, in ue so vivida, francu su tempus chi so istada in Thatari pro istudiare, fintzas a cando no mi so cojuada.
Comente sos ammentos de pitzinnia s’accherant, torro insegus cun sa mente a sos annos passados in cussa carrela, in sos intorinos de cuventu e Santa Rughe, in ue fumis tottu padrones e chi faghiant paste de sa vida, ca fut su logu de sos giogos, de s’allegria, de brigas e cundierras e puru de dolores
Su chi naro in custu libereddu, creo siat restadu in s’ammentu de tottu sos chi mi sunt istados cumpagnos in cussos annos bellos e ipero chi l’ apant arribadu.

Per saperne di più, in attesa dell' uscita dell' opera, penso possa essere utile questa mia breve introduzione:

Carrela De Cuventu è un bel libro in lingua sarda della scrittrice ittirese Teresa Lonis, più volte premiata nei concorsi in limba. Prossimamente un pubblico più vasto potrà conoscere e apprezzare la produzione della scrittrice, che esordisce con quest’ opera di storia locale e memoria personale, ma a cui seguiranno a breve altre di natura specificamente narrativa.
Carrela, la strada, è una bella parola in sé e un bel luogo deputato dei giochi d’ un tempo narrati nel libro, perfino di molti mestieri non più in uso, della consumazione di cibi, di feste di Santi e delle proposte di rimedi per ogni male. Nella strada c’ è tutto, passa tutto quello che è divertimento, utilità sociale, notizie e annunci, teatro di vita e di comunicazione, profano e sacro. E tutto questo in una porzione di strada, quella De Cuventu, ma tutte le altre sono altrettanto nell’ ambito di quel contesto di civiltà preindustriale.
Carrela non è solo la bella parola-espressione, metafora e sintesi di tutta una civiltà, ma è anche il richiamo di tante altre parole, proprie della lingua sarda, che hanno una grande pregnanza di significazioni. Un esempio per tutte la parola Incunza, la raccolta. Se riferita al grano, indica insieme la mietitura, la trebbiatura, la ventilatura, la riposizione del prezioso cereale e della paglia.
In Carrela De Cuventu si respira un sapore antico, un profumo di cose ed eventi di altri tempi, che la narrazione fa sentire come se fossero ancora realtà presenti. Si ritrova il tempo andato, l’ infanzia, l’ incontro, lo scambio, la coralità. Si comprende che vi erano valori di cui manchiamo e di cui soffriamo la perdita oggi. È sorprendente tanta spontaneità di scrittura viva ed ancor più sorprendente è il fatto che la scrittrice fin da piccola avvertisse acutamente il gusto di queste realtà, le imprimesse nella memoria, nella propria vita e ne serbasse vivace ricordo nella lingua originaria. L’ uso della lingua sarda in Carrela De Cuventu non è pertanto una riscoperta, un’ acquisizione degli anni della consapevolezza, della cultura, ma l’ espressione del mondo vissuto ed evocato. Non è un artificio culturale, un’ adesione al ricupero linguistico perseguito in questi ultimi cinquant’ anni, ma il mezzo spontaneo connaturato e maturato nel contesto di una civiltà. E’ qui il segreto della bellezza e della piacevolezza della scrittura di Teresa Lonis, il pregio della sua opera e anche il merito, perché nell’ evoluzione linguistica e civile della società, conserva un patrimonio di lingua, di vita, di testimonianza coeva, di documentazione vissuta di usi e costumi del passato, con colorita narrazione e piacevolezza di stile. Un interessante libro, dunque, d’ esordio della scrittrice che non ha solo sogni nel cassetto, ma altre opere di pronta pubblicazione.