giovedì 15 dicembre 2011

LA TEORIA DEI COLORI



 Andy Warhol, Gothe, 1982 


Johann Heinrich Wilhelm Tischbein, Goethe, 1786







Un argomento di cui non si è mai finito di interessarsi, di parlare, di discutere, di studiare, di sperimentare è quello dei colori. Fa parte della vita, dell’ esperienza di tutti, a cominciare dall’ uomo della preistoria, che usava i colori nelle sue pitture, non si sa come, sulle pareti rocciose, nel buio profondo delle caverne e comunicava, forse propiziava, pregava, adorava. I colori Interessano molte professioni e usi, arti e mestieri, costumi e mode, la comunicazione e l’ estetica. Chiamano in causa tante scienze, matematica, fisica, elettronica, chimica, psicologia, ecc. Si collocano tra oggettività e soggettività. Coinvolgono appassionatamente nello studio anche studiosi che non dovrebbero essere propriamente tra gli addetti ai lavori. Che se ne interessi Isaac Newton ( 1642 - 1727 ) è naturale, ma un po’ meno che se ne occupi Johann Wolfgang Goethe, uno dei cinque sommi poeti dell’ occidente insieme a Omero, Virgilio, Dante, Shakespeare, definito da George Eliot ( 1819 - 1880 ), secondo la concezione rinascimentale,  l’ ultimo uomo universale a camminare sulla terra.

Goethe ( 1749 - 1832 ), uomo di transizione tra illuminismo e romanticismo o forse meglio filosofo e scrittore chiave della transizione dall’ illuminismo al romanticismo, non conosceva confini tra i saperi. Era un immenso appassionato di lingue, di arti e di scienze: mineralogia, anatomia, osteologia, geologia,  botanica, ottica, ecc. Un minerale, la goethite, porta il suo nome, ugualmente un cratere su Mercurio. Gli fu bocciata la  tesi che avrebbe dovuto conferirgli il titolo di dottore in legge ( doctor juris  ) come il padre, ma le sue idee di solo licenziato in diritto ( licentiatus juris ) sulle leggi che devono nascere dalla cultura di un popolo e dalla sua terra  fecero strada come fecero strada arrivando  fino a Charles  Robert  Darwin ( 1809 - 1882 ) quelle sull’ evoluzione. Goethe asserisce di aver dato più importanza nella sua vita alle scienze e specialmente alla teoria sui colori che alle opere letterarie. Testimoniano questo interesse le opere La teoria sui suoni  ( 1810 ), il trattato sull’ ottica, La metamorfosi delle piante ( 1790 ), lo scritto sulla matematica, ecc. Ciò non gli impedisce di lavorare per sessant’ anni al Faust ( la prima parte fu pubblicata nel 1808; l’ opera completa soltanto postuma ) in cui rispecchia, per tanti tratti, se stesso.

Non gli interessa l’ esercizio della professione di avvocato che esercita per quattro anni né quella di praticante nella corte imperiale di giustizia o quella di ministro o di consigliere ministeriale per gli affari militari, per la viabilità, per le miniere, la pubblica amministrazione, la sovraintendenza ai musei o il titolo nobiliare conferitogli dall’ imperatore Giuseppe II. Probabilmente si sente soffocare e nel 1786, come per fuggire da tutto questo,  intraprende i due anni di viaggi in Italia, seguendo le orme del padre. Questa vita era troppo complicata per un uomo che, conosciuto e ammirato da nobildonne, sposerà una semplice fioraia.  Anche la sua città natale, Francoforte sul Meno, era un « nidus, buono a covarci uccellini ma in senso figurato, spelunca, un tristo paesucolo. Dio ci scampi da tanta miseria. Amen ». Non ne può più, ha bisogno di respirare aria libera in un paese segnato dalla bellezza e dalla grandezza del passato e così raggiunge l’ Italia.

Il tipico cosmopolitismo del Settecento, che non era proprio della Germania di allora divisa in oltre duemila tra dazi e dogane e in trecento staterelli assoluti, era anche cosmopolitismo delle conoscenze e dei viaggi. Goethe, scrittore tra l’ altro di viaggi, era pure viaggiatore della mente tra arti e scienza. Portava nella scienza la passione dell’ illuminismo e la mistica del romanticismo. All’ epoca non era inusuale che un poeta e scrittore si dedicasse con ardore alle scienze e un grande matematico e scienziato coltivasse la poesia come, per fare un esempio, il nostro Lorenzo Mascheroni ( 1750 - 1800 ), a cui Vincenzo Monti ( 1754 - 1828 ) dedica l’ incompiuto poema In morte di Lorenzo Mascheroni.

A Goethe non poteva bastare il linguaggio della parola, dove era sovrano, ma occorreva anche quello del pensiero, della filosofia, della teologia, quello della musica e della matematica, dell’ immagine delle arti, dei suoni, dei colori e allora ecco la  grande Teoria dei colori ( 1810 ), a cui dedica circa vent’anni di studi ( 1790 - 1810 ), di osservazioni ed esperimenti continui. In fondo Goethe era anche capace disegnatore e pittore.

Il vero retroterra della Teoria dei colori era questa passione illuminista e la mistica protoromantica dello Sturm und Drang ( Tempesta e Assalto o Impeto e Azione ), anche se la motivazione contingente era la sua posizione ostile alla teoria sui colori di  Isaac Newton.

L’ opera partecipa sia dell’ età della Ragione, dei Lumi, dello spirito, delle finalità, delle metodologie illuministe sia della temperie protoromantica. Impressionante la sistematicità, le suddivisioni, le descrizioni particolareggiate, che testimoniano la volontà di padroneggiare il fenomeno cromatico tanto complesso ed essere esaustiva sia sul piano teoretico che pratico.  La temperie protoromantica si sente bene fin dalla prefazione dove afferma: “ I colori sono azioni della luce, azioni e passioni ” ( La teoria dei colori, il Saggiatore Tascabili, Milano 2009, p. 5 ). E ancora di più si avverte nella sezione sesta intitolata “ Azione sensibile e morale del colore ”, fondamentale e attualissima: “ 758. … esso esercita un’ azione, in particolare sul senso della vista, a cui esso in maniera evidente appartiene e, per suo tramite, sull’ anima nelle sue più generali manifestazioni elementari…” ( Op. cit., Sezione sesta, p.189 ). La trattazione, una vera enciclopedia sui colori, si struttura in sei sezioni, ognuna di numerosi capitoli. I grandi filosofi e artisti del Novecento dimostrano di conoscerla bene: Wittgestein, Kandinskij, Klee, Albers, Andy Warhol, che nel 1982 dipinge Goethe, riprendendolo dal famoso ritratto Goethe in the Roman Campagna ( 1786 ) di Johann Heinrich Wilhelm Tischbein, pittore neoclassico ( 1751 - 1829 ) e dando un saggio dell’ ispirazione e della rinnovata creatività che si può trarre dalle teorie del  genio tedesco. Dopo un non lungo periodo di oscuramento, l’ opera non ha mai cessato di essere attiva e di sollecitare la pratica dei pittori.

Venendo al punto essenziale, c’ è da domandarsi perché tanta ostilità alla teoria dei colori di Newton, vista come un’ antica rocca, una bastiglia da radere al suolo, dimostrandone l’ inconsistenza? La teoria di Newton definita ironicamente “ ottava meraviglia del mondo “, in realtà  è “… un’ antichità che minaccia il crollo e, senza cerimonie, cominciamo a smantellarla a partire dal comignolo e dal tetto, cosicché il sole finalmente entri a far luce in quel nido di topi e di civette, rivelando alla stupito viandante l’ incoerente e labirintica costruzione e, quindi, ancora quanto vi è d’ imposto dalle necessità, quanto vi è di casuale, d’ intenzionalmente artificiale, di malamente raccomodato “ ( Op. cit., p. 9 ). E’ fondamentale per comprendere le ragioni dell’ opposizione la Prefazione all’ opera. Tra luce e colori vi è un rapporto strettissimo, l’ una e gli altri appartengono all’ intera natura ed è proprio questa che, tramite loro, si svela al senso della vista e agli altri sensi, cogliendo un infinitamente vivente. E’ la natura a parlare, a rivelare la propria vita, le proprie connessioni. Parla a se stessa e a noi in mille manifestazioni. Noi percepiamo questi universali movimenti e determinazioni. Nella Natura, con l’ iniziale maiuscola, si percepisce il  Goethe panteista spinoziano; si avverte la centralità dei sensi nell’ apprendere i fenomeni naturali e l’ influsso della filosofia di Immanuel Kant ( 1724 - 1804 ) dove i fenomeni rinviano al noumeno ( Op. cit., Sezione quinta, p. 183 ). E allora come può ridursi ad accettare il meccanicismo corpuscolare newtoniano, la pura fisica e matematica dei colori e  la luce, che, passando attraverso un prisma, è scomposta nei vari colori dello spettro dal rosso al violetto proiettati sul muro e l’ esperimento al contrario, vale a dire  l’ interposizione di un prisma tra l’ occhio e il muro che restituisce la luce bianca? Anzi è proprio quest’ ultimo a scatenare il suo rifiuto, a convincerlo che la teoria di Newton è totalmente sbagliata. La natura non è mai morta o muta. L’ intento dichiarato dell’ opera è di applicare queste universali designazioni e linguaggi della Natura alla teoria dei colori. Da questo pensiero sensista e da questa percezione protoromantica dell’ infinitamente vivente della natura nasce tutta l’ ostilità a Newton e soprattutto all’ arrogante scuola newtoniana, che, a suo modo di vedere, non comprendendo la natura, ha limitato finora la libera visione delle manifestazioni dei colori , ha negato la storia dei colori. “… era del tutto impossibile scrivere una storia della teoria dei colori o anche soltanto prepararla, fino a quando si reggeva la teoria di Newton ( Op. cit., p. 9 ). Da qui il suo fastidio e sdegno contro i newtoniani, che guardano con presunzione a quanti nell’ antichità e nel medioevo percorsero la giusta via lasciandoci osservazioni  e considerazioni che noi non “ potremmo meglio comporre, né sapremmo più esattamente  comprendere “ ( Op. cit., p. 10 ).

Da questo nasce la sua appassionata deplorazione dei metodi della matematica applicati alla teoria dei colori che le hanno recato parecchi danni:

725. “ La teoria dei colori ne ha particolarmente patito, e i suoi progressi sono stati notevolmente ritardati dall’ essere stata assimilata al resto dell’ ottica, che non può fare a meno della geometria “ ( Op. cit., Sezione quinta, p. 179 ).

 Ne viene individuato il vero colpevole, Newton:  

726.“ A ciò si deve aggiungere che un grande matematico si è fatta un’ idea completamente erronea dell’ origine fisica della luce, legittimando per lungo tempo coi suoi grandi meriti di geometra, dinanzi a un mondo sempre prigioniero dei pregiudizi, gli errori da lui commessi come scienziato della natura “.

727. “ L’ autore del presente lavoro ha cercato di tenere la teoria dei colori ben distinta dalla matematica… “ ( Op. cit., Sezione quinta, p. 179 ).

Ecco ciò che si augura l’ autore:

746. “ Augureremmo al sapere , alla scienza, all’ industria e all’ arte, di ricondurre, quando fosse possibile, il bel capitolo  della teoria dei colori dalla limitatezza e dall’ isolamento atomistici in cui è stato finora confinato, al flusso dinamico della vita e dell’ azione, di cui il nostro tempo gode “ ( Op. cit., Sezione quinta, p. 185 ).

Questa visione della natura, universale, viva  e palpitante, piena di ardore e sentimento è più propria di un filosofo che di uno scienziato, appartiene al protoromanticismo inglese e al romanticismo e non alla seconda metà del Seicento, quando Newton sperimenta e descrive la sua teoria ( 1672 ). L’ attacco a Newton, di cui ha ripetuto tutti gli esperimenti, è un vero e spiacevole infortunio; Goethe è vittima di se stesso, cioè della sua cultura protoromantica e della sua sensibilità romantica. Per la scienza resta altamente valida la teoria di Newton. Tuttavia non è da sottovalutare la grande interazione tra luce, materia e colori che il genio di Francoforte sul Meno indagò a fondo. Per la pratica pittorica e per molte professioni  la teoria di Goethe è una patrimonio carico di idee, di suggerimenti e di suggestioni. Uno degli apporti originali di Goethe è nell’ importanza data all’ occhio, che indurrà poi il filosofo Arthur Schopenhauer ( 1788 - 1861 )  a scrivere il trattato La vista e i colori ( 1816 ). Se la fisica ci dice che ad ogni lunghezza d’ onda è associabile un colore, la scienza dell’ occhio ci spiega che a determinati colori non è associabile una lunghezza d’ onda, pertanto molte osservazioni di Goethe si inquadrano in questa formazione di colori che sono somma dell’ apparato cervello + occhio, l’ inverso dei colori artificiali dell’ RGB della televisione. Goethe porta  nella sua trattazione tutto il peso della soggettività, dell’ individualità, com’ è naturale all’ estetica protoromantica e romantica. Personalizza quella che sembra aridità della scienza, ma che è soltanto il rigore metodologico per arrivare alla verità, vale a dire a sapere esattamente come stanno le cose. Cerca  nella sua personale visione di indagare sulla luce e i colori fisici, ma anche su quelli soggettivi e sui loro aspetti emozionali ed estetici,  che hanno riempito i suoi occhi e il suo animo sotto ogni forma, presentazione e produzione. Vero o leggenda che sia che in punto di morte le sue ultime parole siano state “ più luce ” ( Mehr licht ), resta il fatto che il suo spirito era certamente bramoso di conoscere a fondo l’ interazione luce, materia e colori e che la sua vita si era aperta e si chiudeva nell’ immane festa della luce e dei colori, della bellezza manifesta nella natura e in ogni specie di sapere. Per comprendere meglio  La teoria dei colori, l’ importanza e il metodo di lavoro di Goethe vale la pena riportare qui per intero la bella Conclusione dell’ opera:


“ CONCLUSIONE

In procinto di licenziare, in certo modo estemporaneamente, come semplice abbozzo, il lavoro che mi ha così a lungo occupato, e sfo­gliandone le pagine già pronte, mi tornano alla mente le parole di un autore scrupoloso, secondo le quali egli avrebbe desiderato veder stampate in una prima stesura le sue opere per poi rimet­tersi con freschezza all' opera, in quanto nella stampa i difetti ci vengono incontro più chiaramente che nella più nitida calligrafia.

In me questo desiderio doveva nascere tanto più vivo, in quanto non potei rivedere prima della stampa una copia del tutto in ordine, cadendo la successiva redazione di queste pagine in un' epoca che rendeva impossibile un sereno raccoglimento.

 Quante cose dunque, di cui molto si trova già nell' introduzione, avrei da dire ai miei lettori! Mi si vorrà comunque permettere, nella storia della teoria dei colori, di menzionare anche le mie fati­che e il destino che hanno subito.

Forse non è qui fuori posto almeno una considerazione, la risposta alla domanda: cosa può produrre e cagionare a favore della scienza chi non è nella condizione di dedicare a essa la sua vita intera? Cosa può fare, ospite in casa d' altri, a vantaggio del pro­prietario?


Se si considera l' arte nel senso più alto, si potrebbe desiderare che solo dei maestri vi si dedichino, che gli allievi vengano esa­minati nella maniera più severa, e che i dilettanti si accontentino di un reverente accostamento a essa. Infatti, l' opera d' arte deve scaturire dal genio, l'artista deve chiamare in vita contenuto e forma dalle profondità del proprio essere, deve comportarsi da dominatore nei confronti della materia e fare uso degli influssi esterni solo per la propria formazione.


Ma come già l' artista, per diverse ragioni, deve onorare il di­lettante, nelle scienze si dà tanto più il caso che egli possa ren­dere soddisfacenti e utili servigi. Le scienze poggiano, molto più che l' arte, sull' esperienza, e nel trattare con questa molti sono abili. Ciò che appartiene alla scienza riceve contributi da più parti, e non può fare a meno di più mani e di più teste. Il sapere si può trasmettere, i suoi tesori possono venire ereditati e quanto viene acquisito da qualcuno viene fatto proprio da altri. Non vi è dunque chi non possa offrire il suo contributo alle scienze. Di quante cose non siamo debitori al caso, alla pratica, all' atten­zione di un istante? Tutte le nature dotate di una sensibilità fe­lice, le donne, i bambini, sono capaci di comunicarci osservazioni vivaci e pertinenti.


Non si può pretendere da chi si propone di rendere qualche servigio alla scienza che egli dedichi a essa tutta la vita, che egli l' abbracci e la percorra per intero, richiesta considerevole anche per gli iniziati. Si esamini la storia delle scienze in generale, so­prattutto di quelle naturali, e si troverà che, in singoli ambiti, molti notevoli risultati furono ottenuti da individui singoli, spesso da semplici profani.


Dovunque  l' inclinazione,  il  caso  o  le  circostanze  conducano l' uomo, qualunque fenomeno attragga in particolare la sua atten­zione, ne ottenga la partecipazione, lo prenda, lo occupi, ciò av­verrà sempre a vantaggio della scienza, perché ogni nuovo nesso che venga alla luce, ogni nuovo modo di trattarlo — anche quanto è inadeguato, anche l' errore — sono utili o stimolanti e non vanne perduti per il futuro.


In questo senso l'autore può guardare con una certa tranquil­lità al suo lavoro. Da questa considerazione egli può cioè ricavare il coraggio necessario per quanto rimane da fare e quindi, non con­tento di sé ma pure intimamente sereno, raccomanda a un mondo e a una posterità compartecipi l' opera compiuta e ciò che ancora resta da compiere.


Multi pertransibunt et augebitur scientia  ( Op. cit., pp. 215 - 217 ) “ .

venerdì 2 dicembre 2011

Quasi il suo contrario


La poesia del Novecento fin verso il 1968 è sempre stata animata, accompagnata, vivacizzata da elaborazioni di programmi, di estetiche; da correnti, riviste, movimenti o gruppi ispiratori; dalla saggistica. Quella degli ultimi trent’anni del secolo è un po’ il suo contrario. Tutto questo scompare o quasi. I poeti procedono in ordine sparso, al di fuori di manifesti e di particolari riferimenti programmatici. Un fenomeno parallelo alla caduta delle ideologie. La democrazia culturale ha fatto crescere a dismisura il loro numero, finendo per lo più fuori dell’ attenzione della critica, che segna un distacco dalla poesia. Tutta la moltitudine poetica è fuori del suo controllo e della sua ribalta. Impossibile seguirne la pletora. La folla di poeti, che, secondo un paradosso, supera quella dei lettori, finisce in pubblicazioni solitarie, in almanacchi, premi e concorsi i più vari, in siti che appaiono e scompaiono come meteore, in edizioni di editori minori. Entrano sempre più in scena, al posto degli editori, gli stampatori che realizzano stampe a spese e ad autocompiacenza dell’ autore. Un certo numero di questi segue l’ imitazione di modelli, specie anglosassoni, americani. Ma l’ imitazione non sorge dalla vita com’ era per i modelli, ma dalla moda, segnando in partenza una mancanza di originalità e di qualità.

La critica si limita a un certo piccolo numero di poeti consolidati e ad un altro limitato insieme proposto in antologie di editori che hanno l’ intento di dare una panoramica della poesia attuale. I poeti delle antologie, più che oggetto dell’ attenzione della critica sono proposte di editori maggiori, che ne assumono in qualche modo la funzione e ne occupano lo spazio. Il critico è stritolato non solo nella sindrome della quantità, ma anche in quelle della indefinibilità, dell’ incapacità e dell’impossibilità a discernere, catalogare, definire, segnare appartenenze, stabilire confini, periodizzazioni, generi e stili, maniere formali, atmosfere, relazioni, significazioni non informative, senso e nonsense, connotazioni, dinamismi verbali, nuovi stilemi, diverse figure retoriche, grammatiche o loro assenza.

La poesia di questi anni struttura molte tipologie di testi, prende le vie del romanzo autobiografico, dell’ epistola, dell’ epigramma, del poemetto, del teatro, del racconto, del ritorno alla poesia e alla metrica del passato, della versificazione nuova, rapida, veloce, sperimentale fino a stupire per la sua semplicità o eccentricità, percorre i sentieri degli arricchimenti del testo poetico con paratesti, intertesti, apporti iconici. Per lo più rende faticoso al lettore percepire se si tratta di prosa o di poesia. L’ andamento è quello della discorsività, del tono dimesso, colloquiale, confidenziale. Qualcuno ha scritto che la poesia “si teatralizza” e “si prosa”, va alla deriva verso la prosa, arrivando anche a spettacolarizzarsi, senza per altro riuscire a offrire per lo più un vero spettacolo.

La materia è quella della quotidianità, senza scelte, senza selezioni, opzioni: è quella qualunque della vita. E’ tante volte minimal e allora di pari passo sono minimal il linguaggio, lo stile, la versificazione, i generi. E’ la discesa della poesia nel mare della quantità e nei registri verbali e stilistici bassi ( non manca, però, anche il registro aulico ), è il distacco dal monolinguismo di tradizione, dalle lingue base pascoliana e dannunziana ed è il passaggio al plurilinguismo, con le importazioni tramite le traduzioni, con lo sperimentalismo, lo scambio con le arti, con le scienze, con l’ informatica, con i dialetti.

Tutto questo segnala la fine della letteratura e di conseguenza della inclusiva specificità della poesia di cui si discute tanto nell’ ultimo trentennio del Novecento, sotto l’ incalzare di un universo sterminato di altri codici più idonei a interpretare, analizzare, elaborare, enucleare ed estrapolare dalla realtà, aprire mondi nuovi e sogni impossibili?

La polverizzazione delle arti figurative, la frantumazione delle poetiche, il continuo eruttare lava dalla soggettività più libera, sembrano davvero segnare la fine della storia dell’ arte e della letteratura. Nelle galassie della quantità, delle produzioni, dei linguaggi, contaminazioni, generi e stili, per il critico, ora è possibile vedere quasi soltanto una indistinta massa lattea. Sarà solo il telescopio della distanza e del distacco degli anni che consentirà di vedere le singole stelle, le singole luci. Nello stesso tempo si potrà concordare con l’ Italo Calvino delle Lezioni americane che la letteratura e la specificità della poesia hanno cose da dire che soltanto esse possono dire.